Al Teatro dell’Opera di Roma è andato in scena L’angelo di fuoco di Prokof’ev, con la direzione di Alejo Pérez per la regia di Emma Dante
ROMA, 30 maggio 2019 – Sulla scia della nascente psicanalisi, l’isteria femminile è balzata prepotentemente alla ribalta nella produzione letteraria e artistica del primo novecento. Non poteva sottrarsi a tale imperativo il teatro d’opera, attraverso figure rimaste emblematiche: da Salome a Elektra, dall’evanescente Mélisande alla donna senza nome di Erwartung. In questa galleria di ritratti si colloca anche Renate, la protagonista dell’Angelo di fuoco: opera cui Prokof’ev cominciò a lavorare nel 1919 (il compositore realizzò pure il libretto, adattando un romanzo di Valerij Brjusov) e rimasta a lungo nel cassetto fino al debutto veneziano del 1955, quando il musicista russo era ormai morto da due anni. Nemmeno dopo la première, però, Ognennÿ Angel è diventato un titolo di repertorio e se ne contano rare esecuzioni, tanto più in Italia. Colpa forse del soggetto, intriso di un simbolismo – assai difficile da rendere in palcoscenico – e di richiami culturali eterogenei (fra i personaggi figurano persino Faust e Mefistofele), scandito dal grandissimo impegno vocale richiesto agli interpreti. È vero ci sono pagine di musica bellissime, da cui emerge il talento strumentale di Prokof’ev così come l’ammirazione per l’opera italiana, ma il citazionismo – forse eccessivo – sembra talvolta sul punto di sgretolare l’impianto drammatico. L’angelo di fuoco paga infine lo scotto di un compositore che non ha avuto la possibilità di vederlo rappresentato: la prova del palcoscenico gli avrebbe probabilmente consentito di apportare qualche trasformazione per rendere l’opera più compatta.
Un nuovo allestimento di Ognennÿ Angel, affidato a Emma Dante, è appena andato in scena a Roma salutato da un grande successo di pubblico. Sul piano visivo la regista palermitana sposta l’ottica della narrazione, concepita nel libretto in funzione del protagonista maschile Ruprecht, in chiave femminile, aderendo alle inquietudini di Renata. Così mostra esplicitamente i fantasmi che devastano la mente dell’isterica protagonista – ritratta come un’adolescente invasata – all’inseguimento di un biondo angelo (che si materializza attraverso la breakdance dell’atletico Alis Bianca): è la sublimazione di un “desiderio femminile”, dalle sfumature quasi diaboliche, spesso negato dalla società. L’esito sarà devastante per lei così come per Ruprecht, incapace di affrancarsi dall’attrazione morbosa che prova per la donna.
Emma Dante costruisce attorno ai personaggi (con l’aiuto delle scene di Carmine Maringola e dei costumi di Vanessa Sannino) una cornice da mortifero sottosuolo che evoca, anziché la Germania del XVI secolo del libretto, un Sud-Italia in cui si stratificano molteplici archetipi antropologici. Il rischio è che si rimanga frastornati dall’eccesso di immagini, in una sovrapposizione di simboli visivi che talvolta si sovrappongono a quelli del libretto, sebbene alcune arrivino potentissime: la suggestiva tavola che lievita, con la protagonista intenta a suonare al violino alcune pagine di una partitura rimasta a lungo ignota, e soprattutto quella finale, dove Renata – anziché salire sul rogo per la condanna dell’Inquisitore – si trasforma in una Madonna con il cuore trafitto dalle spade, aggiungendovi l’ultima che le porge lo stesso Angelo.
In palcoscenico se la giocano i due protagonisti: il soprano polacco Ewa Vesin che è in grado di reggere un ruolo estenuante, riuscendo a imprimere al personaggio di Renate notevole efficacia espressiva, e il baritono Leigh Melrose, che si rivela un po’ sottodimensionato vocalmente, ma ottimo attore. Accanto a loro ruota una folta schiera di comprimari, cui tocca ricoprire anche più di un ruolo: fra questi spiccava l’ottimo baritono ucraino Andrii Ganchuk, nelle duplici sembianze del servo e di Faust. Ai cantanti e agli artisti del coro si mescolano poi i componenti della compagnia teatrale (Sud Costa Occidentale) della Dante, in una fusione apparsa del tutto naturale.
Ben corrisposto dall’orchestra, Alejo Pérez ha diretto in modo nitido e preciso una partitura costruita da Prokof’ev con estrema razionalità, valorizzandone le numerose citazioni musicali: dalle reminiscenze del Boris nel quadro iniziale, con il dialogo tra servo e padrona della locanda, alla scena del duello che sembra un omaggio a Čajkovskij, oltre ai numerosi richiami a Verdi (il Requiem e soprattutto le streghe del Macbeth durante le allucinazioni delle monache nel quinto atto). Non sempre, però, la sua lettura così asciutta riusciva a entrare in dialettica con una messinscena carica invece di sollecitazioni.
Giulia Vannoni