Venire a Rimini per me è come tornare a casa. Ritrovo ormai degli amici. Io vengo da Torino e sono stata allevata da una nonna sabauda che faceva la sarta, e mi raccontava di quando andava ad ascoltare i Quaresimali e me li illustrava con dei toni così riverenti, di stima, che io sono rimasta impressionata da questi racconti. Anche perché a quel tempo non c’era televisione o altre distrazioni e la gente andava a questi appuntamenti come oggi si andrebbe ad una manifestazione. Laici e credenti si stipavano nelle chiese. Adesso penso a mia nonna e dico: «chissà come se la ride lassù a vedere sua nipote che parla in un Quaresimale!».
È diretta Maria Pia Bonanate e suscita un sorriso in chi ascolta. Giornalista e scrittrice, interviene lunedì 23 marzo in Sant’Agostino sul tema Avere cura delle fragilità
“Vorrei partire dall’Esortazione di papa Francesco; non di un documento teologico astratto, ma di un «fate, ascoltate, abbracciate». Un’Esortazione che porta delle indicazioni pregnanti su quella che è la situazione di oggi. Di quell’Esortazione voglio riportare una frase che mi ha uncinata, quando dice: «Così triste è la situazione che viviamo individualmente, perché nasce da un cuore comodo e avaro, dalla ricerca malata dei piaceri superficiali, dalla coscienza isolata». Il Papa scrive questa frase prima di invitare a riflettere sulle sorti di poveri, fragili e emarginati; per spiegare perché oggi è difficile questa integrazione. Perché ci siamo chiusi nelle nostre piccole torri d’avorio, nei nostri piccoli centri d’interesse, perché i cuori «si sono fatti comodi e avari».
Riaccendere il Vangelo
“Io penso che quello che oggi dobbiamo recuperare, riattivare, riaccendere è il Vangelo quotidiano nelle nostre case. E siccome, per una vicenda che mi è capitata, sono finita veramente nel cuore della fragilità, nel cuore della malattia, della sofferenza, voglio partire da lì: che cosa ci chiede con questa esortazione papa Francesco?
Una persona che deve occuparsi di queste fragilità deve partire da un presupposto: non può fare un passo avanti se non le abita dal di dentro, se non diventa com-partecipe, per scelta oppure per necessità come è successo a me”.
Troppe chiacchiere…
“Vi porto nella mia piccola chiesa domestica. Stamattina quando sono venuta via di casa ho detto a mio marito: «Buon compleanno». Questo è il decimo anno in cui si trova in questa condizione e il suo 79°compleanno, «ti ricorderemo nella chiesa dove io parlerò della nostra vicenda; con tutto il rispetto e la sacralità che questa nostra situazione chiede», gli ho detto.
Quante chiacchiere sono fatte attorno a queste situazioni! L’altro giorno papa Francesco ha parlato di terrorismo delle chiacchiere. Oggi siamo invasi dalle chiacchiere, certe parole sono sulle bocche di troppe persone. Io mi ricordo il caso di Luana Englaro. È stato uno strazio, un terrorismo della chiacchiera; di tutto si parlava meno della realtà. Di quella giovane donna si è interpretato, si è detto di tutto, uno strazio per tutti noi che viviamo queste situazioni. Questo mi ha spinto a dire «No. Non si può strumentalizzare una situazione così forte e privata per far passare le proprie ideologie». Per questo ne parlo solo in luoghi, come questo, che ritengo essere l’estensione della mia piccola chiesa domestica”.
La nostra storia
“Da quando mio marito è stato colpito dalla Sindrome di locked-in si trova in una specie di coma. È una sindrome poco riconosciuta, in Italia ci sono 500-600 casi. È una malattia che lascia la persona – e ha lasciato mio marito – completamente immobile, privo della parola, del più impercettibile dei movimenti, appeso alle macchine che lo nutrono, che lo aiutano a respirare. Dunque la persona con la quale ho vissuto per 35 anni, in poche ore si è ritrovata a non poter più comunicare. In questa offesa, in questa strage del corpo, la mente rimane completamente lucida: capisce tutto, vede tutto. Può solo battere le ciglia se si fanno domande semplici. Trovarsi di colpo in questa situazione è stato come se si fosse capovolto il mondo. Siamo stati un anno in ospedale nella speranza di qualche recupero, senza ottenerlo”.
“Il nonno c’è, io l’accarezzo”
“Qui è venuta la prima questione da affrontare: decidere se portarlo a casa oppure se lasciarlo alle cure di una struttura, come in molti ci hanno consigliato. Abbiamo deciso di portarlo a casa partendo da una consapevolezza – sulla quale non mi ero mai soffermata, perché quando si sta bene non ci si pensa – che mio marito era vivo. Era un essere vivente e gli era rimasto il dono più importante, quello dell’esistere.
Chi ci ha aiutati a capire questo è stata una mia nipotina di 7 anni, molto affezionata al nonno, che vedendoci sofferenti e preoccupati dice: «Nonna, anche se il nonno non può più giocare con me… però il nonno c’è! E lo accarezzo». Questa frase mi ha – ci ha – fulminati. In questa frase abbiamo trovato il nucleo profondo della nuova condizione. Queste persone esistono e questo privilegio dell’esistere nessuno può portalo via loro. Nessuno ha il diritto di toglierlo. Così è cominciata una vicenda straordinaria. Sembro pazza, ma se uno non vive queste situazioni di fragilità non può capirle. È una realtà che mi ha dato una ricchezza ed una conoscenza che prima non avevo”.
Come Cristo, stare “con”…
“Il centro di questa scoperta di una vita nuova è il fatto di trovarci di fronte a delle persone che rappresentano il volto di Cristo. Ma quello che veramente ha cambiato la mia vita è stato capire che vivere questa fragilità, accoglierla, vuol dire scegliere di stare con queste persone. Quel con, per me, ha cambiato tutto. Assistere, visitare, andare a trovare… non sono la stessa cosa di stare con. Sono cose differenti. Cambia tutto. L’esempio è Cristo. Io mi immagino Gesù che stava con la gente: mangiava, raccontava, scambiava due parole. La gente lo ha ascoltato perché stava con loro. Stare con un corpo menomato dalla malattia, significa stare lì, cercare di vivere come lui. Entrare in uno stile di vita, di pensiero e di condivisione che ti permetta di vivere e di conoscere la situazione dell’altra persona.
Nei primi mesi di malattia di mio marito, è venuto a casa mia un medico che assiste da sempre i malati in coma e mi ha detto: «devi pensare che lui adesso è in una terra diversa da quella dove vivi tu e devi essere tu ad andarlo a prendere e portarlo verso di te».
Entrare nel cuore dell’altro
“E così altre forme di marginalità come il migrante che non ha più le sue radici, non ha più la sua terra, viene qui ed è come se venisse sulla luna. Dobbiamo cercare di andare, col cuore, nelle loro terre – dove abitano – e cercare di capire che cosa è importante per queste persone. E io mi chiedo: «adesso, che cosa è importante per mio marito?». Sono le stesse cose di prima? Successo, denaro, potere… che, anche se cercavamo di praticare con discrezione, facevano lo stesso parte della nostra vita? No. Adesso l’importante è l’amore, è spogliarci anche noi di quello di cui lui è stato spogliato; è vivere una vita più essenziale, più povera”.
Privazione o ricchezza?
“Non è una privazione, ma una ricchezza. Io non mi sono mai sentita così ricca di fantasia, emozioni, da quando ho rinunciato a quegli pseudo valori che certe volte mi sfioravano e mi lasciavano incuriosita e desiderosa. Qui sento che questa ricchezza è una ricchezza di fatti e presenze che hanno sprazzi di eternità. Perché questo amore è tutto nelle mani di Dio”.
La riscoperta del silenzio
“La riscoperta del silenzio è un altro dono che mi è arrivato. Il silenzio per me è stato – inizialmente – il silenzio di Dio. Un momento in cui il dolore è così forte e straziante che non sappiamo più dov’è Dio. Questo silenzio l’ho provato anche io; ma poi ho ritrovato Dio, l’ho ritrovato nei volti e nelle voci che mi arrivavano da questo silenzio: voci di vite spezzate come quella di mio marito. Il silenzio mi parlava con sensazioni profonde di presenze; sensazioni che mi facevano sentire un umanità che direttamente o indirettamente avevo conosciuto e che adesso aveva il volto e il corpo di mio marito”.
a cura di Angela De Rubeis