In missione per conto di Emergency. Intervista al chirurgo riminese Marcello Zavatta
Dopo la prima esperienza nel 2006 in Etiopia sono arrivate quelle in Sierra Leone, Afghanistan e Uganda “Mi muove il desiderio di condivisione con un’umanità che sento molto vicina”
Quando e perché ha deciso che da grande avrebbe fatto il chirurgo?
“Nell’estate che ha seguito la maturità di Geometra, lessi un libro come tanti, di poche pretese, semplice e anche un po’ banale: “Processo a un Medico” di Henry Denker. Quel libro ha fatto scattare in me una certa curiosità, non tanto sull’atto della cura verso il malato, quanto sul come funzionasse il corpo umano”.
Un cambiamento radicale di rotta…
“Ero stanco di tutte le materie studiate durante le superiori e volevo provare a studiare qualcosa di completamente diverso, qualcosa del quale non conoscevo nulla. Permisi a me stesso di fare un salto nel vuoto, devo ringraziare anche i miei genitori che me lo concessero.
Da quel giorno nacque un amore per le dinamiche che stanno dietro al funzionamento del corpo umano e in generale della natura. Questo amore misto a curiosità sono ancora tra i motori che mi spingono nella professione”.
È diventato chirurgo ortopedico, ha operato per 24 anni all’ospedale Infermi di Rimini, poi ha continuato nel privato e spesso lascia le sale operatorie riminesi per prestare servizio in zone di guerra. Perché?
“Un bel giorno, la passione per il viaggio e per l’avventura hanno iniziato a prendere una piega professionale: vuoi per la voglia di esplorare le potenzialità del mio lavoro in contesti difficili, vuoi per la curiosità di vedere in prima persona come era la medicina in un Paese a risorse limitate. Poi il tempo passa e anche le motivazioni sono cambiate: ora è più un desiderio di condivisione con una umanità che sento, volente o nolente, molto vicina”.
In che senso?
“Abito in un piccolo paesino sulla costa adriatica, ma in poche ore di aereo posso raggiungere ogni parte del mondo per andare a trovare familiari o amici. Viviamo in un mondo piccolo ed è ragionevole pensare che possiamo tutti essere condizionati dagli eventi storici e sociali che accadono sul pianeta (o condizionarli), indipendentemente dalla distanza che ci separa dall’evento specifico. Come sarebbe stata la mia vita se fossi nato con qualche problema fisico in un altro Paese? Se non fossi nato bianco in un bel posto come è la nostra beneamata Romagna? Quali desideri avrei avuto? Quali difficoltà avrei dovuto affrontare?”.
Quindi è partito…
“Nel 2006 ho fatto una prima esperienza di un mese in Etiopia con il Cuamm, una ong che fa capo alla diocesi di Padova. Un’esperienza che aveva lasciate aperte ancora molte domande. Mi sono quindi messo in gioco per un periodo più lungo in Africa. La mia collaborazione con Emergency è iniziata così”.
Dove ha operato la prima volta con Emergency?
“Per cinque mesi in Sierra Leone, appena uscita dalla sanguinosa guerra civile, tristemente nota per il dramma dei bambini-soldato e per le amputazioni da machete. Poi sono nati i miei due figli e per diversi anni ho preferito rimanere in Italia a supporto della famiglia.
Dal 2018 ho ripreso la mia attività con Emergency lavorando in Afghanistan, Sierra Leone e recentemente in Uganda a supporto del nostro Centro di Chirurgia Pediatrica (quello costruito da Renzo Piano). Attualmente il mio ruolo all’interno dell’organizzazione prevede un’attività anche dall’Italia come coordinatore per la Chirurgia Ortopedica nell’ambito della Medical Division”.
Ci vuole molto coraggio…
“Come spesso accade nella vita, ci vuole coraggio per fare il primo passo, per uscire dalla cosiddetta ‘zona di conforto’, dalle sicurezze del proprio lavoro ormai standardizzato, dalle proprie abitudini e dalla propria cultura. Con Emergency ci sono standard di sicurezza molto elevati, l’organizzazione è molto apprezzata dalla popolazione locale. In Paesi in conflitto, i nostri logisti sono in costante contatto con le parti belligeranti per garantire l’incolumità dell’ospedale e del personale. In tutti i nostri progetti, se ci si attiene alle regole stabilite, i rischi oggettivi sul campo sono molto limitati”.
Ha mai avuto paura?
“Sì. In un paio di occasioni ho avuto veramente paura sia in Afghanistan che in Sierra Leone ma era tutto nella mia mente, avevo frainteso la circostanza.
Dal punto di vista pratico e reale non c’è mai stato nessun evento veramente rischioso attraverso il quale sono passato o se non me ne sono accorto, bene così”.
Quale di questi luoghi le è rimasto più nel cuore?
“La Sierra Leone è stato il mio primo amore, poi è arrivato L’Afghanistan. Di recente sono tornato nel nostro Centro Chirurgico alla periferia della capitale Freetown e devo dire che per certi aspetti la vita di quella povera gente è anche peggiorata rispetto a quanto visto nel 2006. La Sierra Leone è un Paese poverissimo, che ogni anno si contende, con altri pochi, la medaglia per Paese più povero al mondo. La popolazione vive in condizioni estreme, senza educazione, senza assistenza sanitaria, con il costante pericolo di inondazioni nella stagione delle piogge e la scarsità di cibo tutto l’anno. L’implementazione della viabilità con l’asfaltatura delle strade ha aumentato le migrazioni interne verso le grandi città e la capitale ma le altre infrastrutture sono inesistenti”.
Come la popolazione affronta tutto questo?
“Le persone lasciano i villaggi spinte dall’istinto di sopravvivenza, ma poi arrivano in città sovraffollate dove i loro problemi continuano. La corruzione nella vita politica e sociale è sotto gli occhi di tutti. Le ricchezze del Paese, come risorse naturalistiche e materie prime del sottosuolo la Sierra Leone è una delle nazioni più ricche in Africa, appartengono a poche famiglie e compagnie, in parte locali e in parte occidentali. Così come nelle guerre, anche nei Paesi poveri, a rimetterci sono sempre gli ultimi strati della società. Nati poveri, vivono nella miseria senza sapere se quel giorno riusciranno a mangiare e si coricano senza sapere se quella notte la pioggia non farà sprofondare la loro baracca giù dalla collina”.
Qual è stata la sfida più difficile?
“Fare il primo passo, partire. Uscire dal laccio delle comodità pratiche e mentali quotidiane. Una volta in moto, c’è sempre una sorta di energia positiva che mi fa fare una bella esperienza. Penso lo si possa applicare ad ogni aspetto della vita, non solo al lavoro. Herman Hesse descrive molto bene questa condizione nella sua poesia ‘Gradini’. Per me è di grande motivazione, una copia è sempre tra le note nel mio cellulare, ogni tanto me la leggo”.
È ancora in rapporto con le comunità che ha incontrato nel suo servizio internazionale?
“Costantemente. A breve tornerò in Afghanistan dove stiamo aiutando la popolazione in questo difficile passaggio al termine di una guerra che è durata oltre 40 anni (quella della Nato e l’invasione russa degli anni ‘80). Entro la fine dell’anno vorrei fare un salto anche in Sierra Leone”.
Ha mai provato a coinvolgere altri colleghi riminesi nella sua esperienza?
“Non solo riminesi ma anche italiani e internazionali. Non è semplice. Molti hanno il desiderio, ma non la forza di fare il primo passo. Altri non hanno la preparazione adeguata. In diversi non sono proprio interessati, qualcuno poi parte ma non si trova bene ed è comprensibile e assolutamente non criticabile”.
Qual è il ricordo più bello?
“Le persone che incontro: i colleghi locali e internazionali, gli infermieri, i pazienti. Li conosco per nome. Ognuno ha una storia da raccontare e a volte sono storie incredibili fatte di sofferenza ma anche di tanto coraggio. Vedo passare sotto i mei occhi un’umanità che soffre e gioisce, piange e ride, proprio come me o come i miei cari. Nei loro occhi vedo l’assurdità della guerra che non ha né buoni né cattivi ma solo sofferenza e ingiustizia”.