«Solo oggi possiamo ricostruire l’ultima parte del suo viaggio…». In poche pagine, tese nella narrazione lucida e commossa ad un tempo, Rodolfo Francesconi ripercorre una di quelle storie a cui ci ha abituato da qualche anno, con pagine che hanno il respiro sicuro del racconto breve, e l’intensità del dramma collettivo, di un’intera generazione, al tempo dell’ultima guerra mondiale.
Dopo «Quello che butta il mare» (ed il recente «Grilli per la testa»), Francesconi si ripropone con un episodio da cui prende spunto la sua pagina, tutta intrisa dell’impegno civile del ritessere il passato, cercando i fili perduti per colpa del tempo che trascorre, ricostruendo dal pozzo della memoria gli scenari monchi, i paesaggi feriti e soprattutto i terribili dolori della storia, degli orrori che ogni conflitto armato semina, tra le vicende individuali e collettive.
Siamo nella Val Marecchia del 1944, con gli scontri tra partigiani e tedeschi. Sullo sfondo, una popolazione che si rintana dolente e terrorizzata. «Era primavera…». Un ragazzo di 12 anni, con i suoi pantaloncini corti e quella carta d’identità («che tutti, allora dovevano portare sempre con sé, anche se giovani») nascosta in tasca, è curioso. Vuole vedere, e s’avvicina nella piazza del paese a quegli autocarri nazisti «carichi di morti e di feriti».
Nessuno sembra accorgersi di lui, tranne un soldato che sporge dal telone posteriore di un camion, con una mano dalla quale tende «una borraccia seguita da una voce lamentosa che chiedeva “Wasser!”», acqua. Caritatevolmente, il ragazzo afferra la borraccia, corre alla fontana, mentre il veicolo si avvia: «Un altro braccio improvvisamente si sporge dal camion, agguanta per i polsi il fanciullo con borraccia e tutto e lo issa di peso dentro l’automezzo…», sotto gli occhi del padre e della madre.
Invano il ragazzo tenta di liberarsi. Il suo destino è ormai segnato da quella borraccia. Non ritornerà più a casa, «scambiato probabilmente per una staffetta partigiana o comunque uno scampato a una strage e perciò nemico e da trattenere…».
«Solo oggi», conclude l’autore, il suo destino è stato ricostruito perché «il nome, puntigliosamente, figura ancora in due elenchi: quello di un carico arrivato ad Auschwitz e, quello più terribile, di un gruppo di prigionieri avviati alla camera a gas».
Di qui, il titolo «Conservazione di una storia», ricostruita ora grazie a quegli elenchi, ma riproposta anche (ecco il doppio significato dell’espressione), per non dimenticare. (Il volumetto è stato edito a Riccione nella collana «La sfera celeste», diretta da Orio Rossetti).
Ci è capitato di leggere queste pagine a metà febbraio, quando sui giornali nazionali e locali si è parlato di una vicenda forlivese del 1944: «Un hotel sulla via di Auschwitz», ha intitolato «La Stampa». In breve: all’allora albergo Commercio in corso Diaz, fu allestito un «campo di concentramento degli ebrei» della nostra provincia. Non si sa quante persone vi siano state segregate. Si sa però, grazie alle ricerche storiche di Paola Saiani (edite dall’Istituto storico provinciale della Resistenza nel «Bollettino 1990»), che a Forlì furono compiuti due eccidi finora restati sconosciuti: il 5 settembre (30 vittime, 26 identificate, di cui 10 ebree), ed il 17 settembre (7 donne ebree uccise: erano le madri, mogli e sorelle delle vittime precedenti). Spararono le Ss tedesche, i repubblichini vigilavano attorno. Gli uccisi erano italiani e stranieri, tutti arrestati nella provincia e tutti trasferiti a Forlì, in quel tragico «hotel sulla via di Auschwitz».
Una testimone di quegli orrori, fu suor Pierina Silvetti che nel ’44 era assistente al reclusorio femminile del capoluogo, e che ricordò i fatti in un diario pubblicato l’anno scorso dal periodico forlivese «Una città». Suor Pierina (oggi ultraottantenne) annotò: «Credevamo davvero che le donne sarebbero state risparmiate, perché un ufficiale delle Ss ci aveva assicurato che le avrebbero rimpatriate. (…) Poche ore dopo sapemmo la terribile verità, erano state fucilate» alle Casermette, in aperta campagna.
Nella primavera del ’45, suor Pierina fu portata dal Comando alleato a riconoscere qui corpi che «giacevano decomposti l’uno accanto all’altro, tutti portavano i fori dei proiettili alle gambe e alla testa».
Sulla vicenda, giovedì 13 febbraio, con la partecipazione di numerosi studiosi, si è tenuta a Forlì, una «Giornata di ricordo, di riparazione, di riflessione». Appunto, per “conservare la storia”, come ha ben detto Rodolfo Francesconi nel titolo del suo racconto.
(Sui precedenti lavori di Francesconi, vedi «Il Ponte» del 23. 9. 90 e del 22. 12. 91).
Quest’articolo è stato pubblicato su «Il Ponte» XVII, 11, 15.03.1992.
Da «Rimini ieri. Dalla caduta del fascismo alla Repubblica, 1943-1946» di Antonio Montanari, ed. Il Ponte, Rimini 1989, pp. 94-95 riproduco questo brano:
La storia che segue ha per protagonisti 39 ebrei, arrivati a Bellaria nell’albergo di Ezio Giorgetti dopo l’armistizio. Sono donne, uomini e bambini, originari della Germania, dell’Austria, dell’Jugoslavia e della Polonia, fuggiti l’11 settembre da un campo d’internamento veneto. Li ha mandati da Giorgetti una sua vecchia cliente, una contessa che da Asolo, dove abitava, aveva organizzato il viaggio di quel gruppo in camion fino alla Romagna.
«Arrivarono con una lettera di presentazione che li qualificava come ‘profughi stranieri’. Li accolsi», testimoniò Giorgetti in un’intervista: «Solo dopo qualche giorno, visti vani tutti i loro tentativi di noleggiare una barca da pesca e di allontanarsi via mare, ci dichiararono di essere ebrei e di rimettersi nelle mie mani».
Chiedono un’ospitalità che per i padroni di casa significa rischio della vita. Solo una decina hanno i soldi per pagarsi la retta-sfollati. Giorgetti e la moglie, Lidia Maioli, li accolgono, li aiutano, ricorrendo per consiglio ed appoggio anche al maresciallo dei Carabinieri di Bellaria, Osman Carugno; al segretario comunale di San Mauro, Alfredo Giovannetti; al vescovo di Rimini, monsignor Vincenzo Scozzoli e don Emilio Pasolini.
Uno degli scampati, Leopold Studeny, definì Carugno «il nostro protettore in tutti i momenti». Giovanetti fornisce carte d’identità in bianco che sono intestate a nomi falsi. Come falsi sono i timbri apposti sui documenti: riproducono lo stemma del Comune di Barletta, che era stato occupato dagli alleati. Quei timbri li ha lavorati un incisore di Rimini, Pietro Angelini. Don Pasolini procura materassi, coperte, biancheria e pane biscottato preparato dalle suore Maestre Pie.
Dopo due mesi, all’albergo di Giorgetti arrivano i nazisti. Gli ebrei sono trasferiti di notte ad Igea Marina, alla pensione Esperia. Pure lì giungono i tedeschi. Altro spostamento alla tenuta Torlonia di Cagnona di Bellaria. E di qui, nel dicembre 1943, per un’altra requisizione nazista, i profughi scappano alla pensione Italia di Gino Petrucci, dove sono presentati come «italiani all’estero» sfollati all’ultimo momento.
Gli alleati s’avvicinano, ma i sospetti di fascisti e nazisti aumentano. Gli ebrei, su consiglio di Carugno, decidono di inoltrarsi verso l’interno, a Madonna di Pugliano (Pesaro).
Nel settembre 1944, ad un anno dall’inizio della loro odissea, sono liberati dagli alleati, e trasferiti a Roma, dove rimangono sino al 2 giugno 1945, quando sono portati all’Ufficio trasporti di Riccione.
Carugno e Giorgetti saranno definiti in Israele «Giusti fra le genti».
«Polizia e carabinieri, nella nostra zona (da Viserba a Torre Pedrera) non si sono mai affannati per collaborare con gli occupanti», dice Guido Nozzoli, ricostruendo i momenti della clandestinità: «Per esempio, la squadra politica del Commissariato, come potemmo accertare dopo la Liberazione, aveva localizzato» un recapito dei Gap nei pressi di Torre Pedrera, «ma non venne mai a bussare a quella porta e non trasmise l’informazione né alla gendarmeria tedesca né alla sede del fascio. Neppure i Carabinieri, a cui era affidato il compito di reperire disertori e renitenti alla leva… se la son presa troppo calda».
Antonio Montanari (Il Ponte 15 .3 .1992)