La pittura sacra cristiana vive da sempre sull’orizzonte delle lacrime: il sentimento religioso – anche quello più sottile e metafisico dei mistici – prende corpo e diviene acqua nel pianto, s’incarna nelle lacrime. Nell’«Imago Pietatis» di Giovanni Bellini custodita a Brera il pittore, parafrasando Properzio ha lasciato un’iscrizione in versi: «Come questi occhi gonfi di pianto emettono quasi gemiti/ così l’opera di Giovanni Bellini potrebbe quasi piangere». Perciò anche il dolore dipinto – si vorrebbe dire con Jean-Loup Larchet – è la liquefazione di un pensiero che eccede la misura sopportabile, è un sentire coagulato nell’acqua, è parola carnale che offre all’anima una materia in cui incorporarsi, anzi è la carne che l’anima sofferente predilige e corteggia per alleggerirsi del peso della propria angustia. Un angoscia sacra che fa tremare persino il pilastro e fondamento della Verità, le colonne a cui sono legati gli struggenti Cristi in pianto di Antonello da Messina. Il tema del Threnos, del Compianto sul Cristo morto, dalle icone bizantine fino alle Pietà di Bellini e ai maestri della Controriforma, è sempre una potente metafora eucaristica: il cadavere del Sacrificato quale Ostia, il sepolcro come altare, il sudario in veste di corporale, i discepoli e gli angeli nel ruolo di addolorati ministranti, raggruma in sé tutti i pianti rituali possibili a partire dall’iconografia egizia e da quella ellenica e romana fino alla superba severità della tragedia greca di cui sono eredi il canto bizantino e quello gregoriano e i lamenti di Palestrina, Victoria, Monteverdi, Gesualdo da Venosa con le sue «Tenebre» che si assaporano come perle nere da sciogliere in bocca, da sciogliere in pianto.
Il tema del “Threnos”, del “Compianto sul Cristo morto”, dalle icone bizantine fino alle “Pietà” di Bellini e ai maestri della Controriforma, è sempre una potente metafora eucaristica: il cadavere del Sacrificato quale Ostia, il sepolcro come altare, il sudario in veste di corporale, i discepoli e gli angeli nel ruolo di addolorati ministranti, raggruma in sé tutti i pianti rituali possibili a partire dall’iconografia egizia e da quella ellenica e romana fino alla superba severità della tragedia greca di cui sono eredi il canto bizantino e quello gregoriano e i lamenti di Palestrina, Victoria, Monteverdi, Gesualdo da Venosa con le sue «Tenebre» che si assaporano come perle nere da sciogliere in bocca, da sciogliere in pianto.
A Rimini i compianti cominciano con i maestri del Trecento di cultura orientale più che giottesca: Giovanni da Rimini, nella tavola con le “Storie di Cristo” (ora a Roma in Palazzo Barberini) raffigura l’abbraccio tenero della Madre al Bambino nell’iconografia della “Natività”, si ripete subito sotto nel Lamento sul Cristo morto, accentuando i rimandi simbolici tradizionali: la corrispondenza tra la culla di Cristo e il sepolcro, le fasce dell’infanzia che alludono al sudario della morte, la grotta della nascita che richiama l’antro della sepoltura. Ma se la gioia del Natale prelude alla tragedia della Croce è anche vero che il simbolismo sacrificale della “Natività” allude al trionfo finale sulla morte
Le lacrime vere appaiono nel Quattrocento, sui volti di due dolenti dipinti per una crocifissione perduta, da un discepolo del padovano Squarcione, Giovan Francesco riminese. Di contro, la Pietà riminese del Bellini che fa conservare al Cristo una dignità anatomica da eroe (“eros”) classico, resta contratta nel delicato stupore di angeli infanti che schiudono le labbra in un madrigale. La bellezza non cede alla morte, l’attraversa, si fa segno del trionfo sulle porte degli inferi anche in quel rivolo di sangue e acqua che scende dalla ferita nel costato a portare vita eucaristica fin nel mondo delle tenebre, come il Sole di Cristo comincia a brillare nel buio del solstizio invernale.
Alessandro Giovanardi