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Nabucco può ancora sorprendere

Nabucco al Teatro delle Muse di Ancona - PH Giorgio Pergolini

Nabucco ha inaugurato la stagione lirica di Ancona con una sorprendente lettura di György Györiványi Ráth 

ANCONA, 25 ottobre 2024 – Essere una delle opere più popolari e amate dal pubblico, talvolta, può indurre ad adagiarsi su certezze fin troppo consolidate, tanto il successo è assicurato comunque. Un rischio che molti direttori corrono con Nabucco. Invece György Györiványi Ráth, chiamato alle Muse di Ancona a dirigere il titolo inaugurale della stagione lirica, è stato in grado di offrire una lettura approfondita e personale, che si è rivelata l’aspetto più interessante dell’intero spettacolo.

Il baritono Enrico Petti (Nabucco) – PH Giorgio Pergolini

Il direttore ungherese (vincitore nel 1986, a venticinque anni, del Concorso Toscanini) possiede una spiccata personalità musicale: dunque, non si è accontentato d’incanalarsi lungo i binari della prassi esecutiva – peraltro sempre a un passo dallo scivolare nella routine – per cogliere in modo sbrigativo un successo fin troppo ovvio. È andato invece oltre la capacità di trarre sonorità morbide e suadenti dall’Orchestra Filarmonica Marchigiana – apparsa più duttile del solito – e persino dai Fiati di Ancona che, come talvolta accade nelle opere di Verdi, suonano fuori scena; e ha puntato su una personalissima scelta dei tempi, ora dilatati ora molto celeri, rispetto a quelli di tradizione. Fin dalla sinfonia sono così emersi dettagli di solito omessi, come certi staccati; ha impresso poi al Va’, pensiero strumentale – che Verdi qui anticipa – una dignità inedita, di vera e propria frase sinfonica e non fugace citazione di quello che poi ritornerà in seguito. Ráth è apparso dunque immune da certa pigrizia abitudinaria di chi spaccia quest’opera del 1842 come risorgimentale, tanto più che Verdi – in virtù pure del libretto fornitogli da Solera – sembra guardare indietro: più al Mosè di Rossini che a trionfalistiche tematiche patriottiche. Paradossalmente, una simile lettura finisce per essere assai più rispettosa delle intenzioni verdiane, quasi un esempio virtuoso e concreto di cosa sia un’interpretazione filologica.

La gamma di possibilità musicali espressa da Ráth va in aiuto anche degli interpreti, che possono così intercettare quei punti di contatto più adatti alle loro caratteristiche. Elemento di spicco nel cast il soprano sloveno Rebeka Lokar, che ha sfoggiato solidi mezzi da soprano drammatico, affrontando l’impervia scrittura di Abigaille – personaggio di cui è una specialista – con notevole sicurezza. Struggente, poi, nel finale (laddove molte interpreti ci arrivano in affanno, seppure giustificato) quando, ormai morente, chiede perdono e benedice la rivale: la sua voce ben timbrata galleggia, in pianissimo, con naturalezza sull’orchestra. Non regge il confronto con la sua antagonista il Nabucco del baritono Ernesto Petti. La dizione è scolpita e il timbro accattivante, per cui comunica facilmente la tormentata parabola del protagonista; i risultati tuttavia non sempre corrispondono alle intenzioni per qualche eccesso di spavalderia vocale. Nei panni del sacerdote Zaccaria, Nicola Ulivieri riesce a trasformare i limiti della voce, che ormai ha perso rotondità, in un recitar cantando mobile ed espressivo. Irene Savignano mostra una voce troppo compressa nel registro grave, anche se riesce a raggiungere qualche risultato apprezzabile nell’aria Oh dischiuso è il firmamento! quando insiste nella regione più acuta, mentre Alessandro Scotto Di Luzio è apparso poco incisivo come Ismaele. Fra i comprimari resta impressa la giovanissima Antonella Granata nei panni di Anna, mentre Andrea Tabili interpreta un tetragono Sacerdote di Belo e Luigi Morassi un sollecito Abdallo. Di apprezzabile professionalità la prova del Coro Lirico Marchigiano “Vincenzo Bellini”, preparato da Vincenzo Calzolaro.

Lo spettacolo del regista Mariano Bauduin lascia giustamente fuori la simbologia ebraica – non è questo il momento storico più opportuno per chiamarla in causa – e vira verso una cornice astratta, con l’intenzione di valorizzare gli aspetti oratoriali, e dunque rituali, dell’opera. Per questo si affida a tenui citazioni del teatro orientale, visibili nel trucco di qualche interprete e negli abiti realizzati da Stefania Cempini. La scenografia essenziale di Lucio Diana, che firma pure la suggestiva illuminazione, propone come elemento più caratterizzante un cavallo di legno su ruote, che viene diversamente orientato a seconda degli equilibri di potere, trasmettendone in modo efficace l’idea di mutevolezza. Una cornice semplice e realizzata in economia di mezzi, ma una volta tanto non è un problema, visto che il punto di forza dello spettacolo resta la bacchetta di Ráth. Sarebbe auspicabile, anzi, avere più spesso l’occasione per ascoltarlo in Italia.

Giulia  Vannoni