Jakub Hrůša ha diretto Orchestra e Coro di Santa Cecilia in un concerto dedicato a Leggende e preghiere della Boemia
ROMA, 21 aprile 2023 – C’è voluto del tempo per dare a un musicista come Janáček la giusta collocazione fra i giganti del novecento, dove svetta sul versante tanto operistico quanto strumentale. La sua produzione ha impiegato molto a essere conosciuta al di fuori della Boemia e, in Italia, resta ancora un compositore non noto come meriterebbe. Nel concerto proposto dall’Accademia di Santa Cecilia la sua musica è stata abbinata a quella di Dvořák, altro grande boemo, che però – a differenza di Janáček – ottenne notorietà e successo internazionali quando era ancora in vita (basterebbe pensare all’immensa popolarità della sua Sinfonia dal Nuovo Mondo). I due compositori erano legati fra l’altro da vincoli di profonda amicizia.
Per valorizzare al meglio una musica che affonda le radici nel grande patrimonio folclorico e ne mantiene un legame indissolubile, è stato scelto Jakub Hrůša, nativo di Brno (la città dove Janáček trascorse gran parte della sua esistenza) e attuale direttore principale ospite dell’Orchestra di Santa Cecilia.
La serata si è aperta con il Te Deum di Dvořák ‘per soli, coro e orchestra op.103’: bellissima pagina – che per certi aspetti replica il valore dello splendido Stabat Mater – composta nel 1892 ed eseguita a New York in occasione del quarto centenario dalla scoperta del continente americano. Alla voce luminosa e omogenea del soprano ceco Kateřina Kněžíková toccava il compito, assolto con perfetta facilità e naturalezza, di rapportarsi con un’orchestra densa e talvolta rinforzata anche dal coro. Con lei, nel quinto e ultimo movimento, il baritono Vito Priante ha intrecciato una suggestiva dialettica sempre scandita da un’emissione sicura e notevole intensità espressiva.
Come perfetta appendice del Te Deum è poi seguito un brano solo strumentale, la Sesta leggenda in do diesis minore, scritta dieci anni prima a Praga (e appartenente alla raccolta delle Dieci leggende op.59): una sorta di Lied strumentale della durata di appena cinque minuti e dal carattere quasi contemplativo.
Dedicata a Janáček, invece, la seconda parte del programma. Prima con Il vangelo eterno: suggestiva ‘cantata per soprano, tenore, coro misto e orchestra’ composta nel 1914, quando il compositore – che non fu un talento precoce – aveva già sessant’anni. Il testo del poeta Jaroslav Vrchlický, anch’egli boemo, mette in versi un colloquio immaginario tra Gioacchino da Fiore e un angelo, quest’ultimo affidato sempre all’ottima Kněžíková. Nei panni del monaco medievale calabrese il bravissimo Nicky Spence, oggi tra i più acclamati interpreti di Janáček. Il tenore scozzese non solo ha cantato tutto a memoria in una lingua non sua, ma ha saputo imprimere straordinaria espressività e accenti toccanti a un dialogo che ruota attorno ai significati fondamentali dell’esistenza umana.
Il concerto si è concluso con l’esecuzione del più noto Taras Bulba, ‘rapsodia per orchestra’ anch’essa composta durante gli anni del primo conflitto mondiale, ma caratterizzata da un’atmosfera completamente diversa dal Vangelo. La musica sembra riecheggiare quella violenza suscitata dalla guerra – è facile cogliervi anche un sottotesto patriottico – che animava l’omonimo romanzo di Gogol’, cui Janáček si era ispirato.
L’efficacissima impaginazione del programma si deve ovviamente a Hrůša, perfettamente a suo agio nell’affrontare i due autori. Ha guidato gli strumentisti di Santa Cecilia con braccio flessibile e grande attenzione alle sfumature dinamiche; orchestrali e coristi l’hanno assecondato con rigore ritmico e – allo stesso tempo – con elasticità, esaltando la straordinaria gamma timbrico-coloristica che contraddistingue questa musica.
Peccato solo che la durata del concerto sia stata troppo breve. Raggiungere l’Auditorium, specie con i mezzi pubblici, è faticoso e meriterebbe almeno un maggiore appagamento in termini di durate. Tanto più quando la qualità è così alta.
Giulia Vannoni