È sabato mattina quando lo incontriamo nel suo studio al terzo piano dell’Ospedale di Rimini seduto di fronte a un Mac. Giuseppe Battagliarin è il primario di Ginecologia e Ostetricia. Spesso viene anche di domenica. “Assiduità” e “presenza” – dice – sono la sua ricetta per un reparto di eccellenza, e così è quello di Rimini, a giudicare dalle statistiche: muoiono 5 donne ogni 100.000 nati vivi, la metà del tasso nazionale. Eppure a Battagliarin non piace quell’attributo: “Quando definiscono il mio reparto un’eccellenza sono preoccupato. Preferisco pensare alle cose da migliorare e verificare ogni giorno sul campo quell’etichetta”. Nei sei anni della sua dirigenza ci sono stati 19.000 parti; una sola donna non ce l’ha fatta. “Un dato di cui non mi vanto ma che ricordo con grande commozione”.
Nonostante le critiche che ci facciamo in Italia – afferma -, il rischio per le mamme è da noi fra i più bassi al mondo.
“In Emilia-Romagna i parti prematuri sono in discesa”, ricorda. Abbiamo chiesto al medico milanese trapiantato in Romagna, membro della Commissione regionale per lo studio della mortalità materna, cosa ne pensa della tragica serie di gravidanze finite nel lutto a cavallo dello scorso Capodanno.
Dottor Battagliarin, che idea si è fatto della vicenda?
“In medicina si verificano spesso dei cluster, periodi in cui si concentra un particolare tipo di evento. E ciò non vuol dire che la sua tendenza sia in aumento”.
Dalle prime ispezioni non risultano responsabilità dirette…
“Il fatto è che nel 2016 si può ancora morire di parto. Azzerare i decessi, nonostante la buona assistenza, è un sogno. Però abbiamo fatto progressi. Mi sono laureato nel ’74 e allora le morti erano 37 ogni centomila. Oggi sono scese a 10, per cui dovremo comunque fare i conti a fine anno in Italia con 50 donne che non ce la fanno”.
Siamo migliorati proprio in tutto?
“Ad un’accresciuta competenza diagnostica non è seguita una pari capacità di assistenza al travaglio e al parto. I cesarei sono aumentati nel Paese in maniera immotivata, ma sono quattro volte più rischiosi dei parti vaginali, aumentano il rischio dei parti futuri della donna e ne riducono la fertilità. L’età media delle pazienti, poi, è salita da 25 a 34 anni aumentando il rischio dell’aggravio di patologie esistenti”.
Di cosa si muore soprattutto?
“In Emilia-Romagna le prime cause sono: emorragia post-parto, lacerazioni, aumento della pressione arteriosa ed embolie polmonari. E le infezioni: l’uso sconsiderato di antibiotici favorisce complicazioni”.
L’Ospedale di Rimini esegue il numero di parti più alto nell’Ausl Romagna (2.983 nel 2015). Come si è raggiunto questo risultato?
“C’è un notevole afflusso di pazienti dal nord delle Marche per via della nostra importante rianimazione neonatale. Negli anni abbiamo inoltre introdotto un nuovo modello: ogni donna è accompagnata dalla stessa ostetrica in tutte le fasi, cercando di intervenire il meno possibile coi farmaci, e questo ha migliorato gli esiti”.
I familiari delle pazienti sono sempre più diffidenti?
“Un tempo c’era più fiducia nel medico. Oggi mi sento dire spesso dai mariti in sala parto, «Stia attento che se succede qualcosa gliela faccio pagare». Oppure «Non fate il cesareo perché volete risparmiare. Così fate correre un rischio a mia moglie». Quando la verità è che vogliamo solo ridurre il rischio per la donna”.
Che ruolo gioca la stampa in tutto questo?
“Se quando si dà la notizia di una morte materna si mette in luce solo l’apertura di indagini e il dolore dei parenti, amplificato dal desiderio di rivalsa e da commenti del tipo «Il personale non è stato all’altezza», alla fine l’opinione pubblica arriva a credere che dietro a un decesso debba esserci per forza un colpevole, e che il servizio sanitario sia inadeguato. Per noi, sentirsi sempre sul banco degli imputati è motivo di sofferenza e crea atteggiamenti difensivi che devono essere cancellati”.
I parenti dicono di rivolgersi alla magistratura per evitare che eventi simili si ripetano.
“Un familiare ha il diritto di capire, ma il modo per non fare ricapitare più eventi simili non è la denuncia, bensì la ricerca. E questo è già nel DNA di ogni ospedale. Ciascuna struttura ha un gruppo di esperti che analizza gli eventi negativi e presenta il rapporto degli esiti alla Regione. Una rete di controllo esiste già. Per questo la task-force inviata dal Ministero della Salute agli ospedali coinvolti nelle recenti cronache, sembra più un espediente per accontentare l’opinione pubblica che qualcosa di effettivamente utile”.
Mirco Paganelli