Evita il glamour e il divismo in quel di Torino (al Festival), sfugge alla premiazione a lui dedicata e la trasferisce in sala stampa mentre parla del suo ultimo film Miracolo a Le Havre. Il finlandese Aki Kaurismaki è in grado di regalarci sempre emozioni sincere, cinema genuino e anche provocazioni d’artista mai fine a sé stesse.
Qui è a Le Havre, città portuale dove sbarcano clandestini e dove non accadono miracoli. I clandestini ci sono sul serio, braccati dalla polizia, per i secondi occorre seguire l’esperienza vissuta da Marcel (l’attore André Wilms, già con Kaurismaki in Vita da Boheme), lustrascarpe di modeste condizioni economiche. La moglie Arietty (Kati Outinen) si è ammalata gravemente e pare non ci sia più speranza e Marcel si deve pure occupare di un giovane africano che vuole a tutti i costi raggiungere Londra per ricongiungersi alla madre. Dove sta il miracolo in questo turbinio di eventi drammatici? La risposta guardando il film, e considerando il procedere lieve, personale e coinvolgente di Kaurismaki che “tocca” i suoi personaggi con la magica bacchetta di un cinema piacevolissimo e mai opprimente, anche quando tocca tematiche serie. Anche il “nero” poliziotto Jean-Pierre Daroussin dimostra di avere un cuore, gli abitanti del quartiere sanno cosa vuol dire solidarietà e solo lo sgradevole informatore (Jean Pierre Léaud) risulta il vero personaggio negativo.
Con un cromatismo di colori che ci aiuta a riconoscere la sua “impronta”, con quella capacità di racconto che vira spesso in un umorismo sottile e intelligente, pur con gli inevitabile accenni ai drammi dell’esistenza, con gli attori disposti a recitare con le pause e i tempi scanditi dal regista, Miracolo a Le Havre è una di quelle “piccole gemme” che illuminano il cinema e lo rendono ancora ricco di senso, dove anche una favola apparente si potrebbe in fondo realizzare.
Cinecittà di Paolo Pagliarani