Al Teatro Alighieri di Ravenna ‘La Fanciulla del West’ di Puccini nell’allestimento quasi cinematografico di Ivan Stefanutti
RAVENNA, 16 febbraio 2018 – Nella galleria pucciniana di ritratti femminili, Minnie occupa un posto speciale: una volta tanto siamo di fronte a una donna positiva, disposta a lottare – e a vincere – per l’uomo che ama. Lontanissima dalla fragilità capricciosa di Manon, dalla sottomissione di Cio-cio-san, dalla funesta gelosia di Tosca e dall’isteria di Turandot, questa locandiera che vive nel Far-West dei cercatori d’oro (un ambiente tutto maschile, dove riesce a essere rispettata senza abusare delle tradizionali armi di seduzione e civetteria) è un personaggio che affascina per la sua umanità e determinazione. Insieme alla cornice americana, splendidamente valorizzata dalla sontuosa e raffinatissima musica di Puccini, l’happy end di Fanciulla del West sembra così anticipare alcune caratteristiche della nascente arte cinematografica: non è un caso che quest’opera avesse debuttato al Metropolitan nel 1910 forse per una certa ostilità manifestata in Italia verso il compositore o, ancor più, perché dava l’impressione di essere concepita per i palcoscenici di oltreoceano. Fonte del libretto è infatti la pièce del drammaturgo (e regista di cinema) americano David Belasco, The Girl of the Golden West, perfetta anche per il grande schermo.
All’Alighieri di Ravenna La Fanciulla è andata in scena in un allestimento tradizionale, nato al Teatro Lirico di Cagliari, e rispettoso di quelle atmosfere e cornici naturalistiche, già tante volte immortalate al cinema. Il regista Ivan Stefanutti (autore pure di scene, costumi e proiezioni che evocano la maestosa natura della California) cura con attenzione i profili psicologici dei personaggi, a cominciare proprio dal terzetto protagonistico. Il soprano Amarilli Nizza, impegnata in un ruolo che è associato indissolubilmente al nome di Renata Tebaldi, pur con qualche sforzo nell’affrontare una scrittura che insiste spesso nella regione acuta, ha disegnato una convincente Minnie: personaggio volitivo e appassionato, sull’orlo di una crisi di nervi dopo la partita a poker del secondo atto, vertice drammatico dell’intera opera. Del tutto credibile nei panni di Dick Johnson, il bandito che riesce a far breccia nel cuore della protagonista, il tenore spagnolo Enrique Ferrer, nonostante i problemi legati a una voce che aveva il suo punto debole nel passaggio di registro. Lo sceriffo Jack Rance era interpretato da un sicuro e solido Elia Fabbian, tetragono nei confronti degli altri minatori, prepotente e viscido verso Minnie, d’inflessibile crudeltà nel pretendere l’impiccagione del rivale. Fra le figure di secondo piano (ai tre protagonisti si aggiungono ben quindici personaggi: un organico che fa capire perché questo capolavoro sia di così rara esecuzione) emergeva Giovanni Guagliardo, il tollerante e magnanimo Sonora. Invece, Gianluca Bocchino ha caratterizzato Nick, l’aiutante di Minnie nella locanda, in modo fin troppo macchiettistico. In ruoli ancora più piccoli vanno ricordati il mezzosoprano Sabina Cacioppo, per la solidità dei mezzi e la timbratura vocale della squaw Wowkle; Carlo Di Cristoforo come Wallace, incisivo nella sua canzone; Pedro Carrillo, interprete del baro Sid; Federico Cavarzan, che ha sostenuto sia il nevrotico personaggio di Larkens sia l’indiano Billy, con cui si è trovato ancor più a suo agio.
Il direttore americano James Meena, senza tener conto di avere a disposizioni voci un po’ sottodimensionate (per tacere poi del modesto Coro del Festival Puccini) rispetto all’imponenza della strumentazione pucciniana, ha ottenuto dall’Orchestra della Toscana volumi esageratamente alti, creando squilibri sonori soprattutto all’inizio. Questo non ha comunque impedito che emergesse la minuziosa precisione con cui Puccini descrive l’ambiente: con le suggestioni provenienti dal rude mondo dei minatori, gli echi folclorici e – persino – le condizioni meteorologiche, fino all’avvincente partita a poker. Un’atmosfera piena di fascino che riesce a conquistare nonostante i limiti dell’esecuzione.
Giulia Vannoni