Al Teatro dell’Opera di Roma è andato in scena Zaide, il Singspiel mai portato a termine da Mozart, con il libretto riscritto da Italo Calvino
ROMA, 24 ottobre 2020 – Non sapremo mai perché Mozart si sia limitato a musicare solo quindici brani di Zaide, senza portarla a termine. Resta, semmai, il rammarico – vista la qualità altissima della musica sopravvissuta – per non aver potuto conoscere questo Singspiel in forma compiuta, né basta a consolarci l’idea che, forse, rappresentava solo una prova generale dell’ormai imminente Ratto dal serraglio (1782).
Di quest’opera è andato perduto pure il libretto di Andreas Schachtner e bisogna, dunque, esser grati ad Adam Pollock, organizzatore di Musica nel Chiostro a Batignano (non si finirà mai di rimpiangere questo festival raffinatissimo, pioniere nella riscoperta di rari titoli sei-settecenteschi, oltre che impareggiabile fucina di talenti in campo registico), che nel 1981 affidò l’incarico, niente meno, a Italo Calvino di scrivere un nuovo libretto per renderne possibile la rappresentazione. È nata così la versione di Zaide appena riproposta al Teatro dell’Opera di Roma, in sostituzione del previsto Rake’s Progress cancellato per l’attuale emergenza sanitaria.
Lo scrittore concepì un racconto, da affidare a una voce narrante, che interpolasse la musica, immaginando più di una possibilità nello sviluppo dei principali snodi drammaturgici. Facendo i conti anche con le convenzioni dell’epoca, Calvino ipotizza così soluzioni diverse – un po’ come succede nel suo romanzo Se una notte d’inverno un viaggiatore – descritte dalla narrazione e replicate dagli interpreti. Un tale approccio raziocinante potrebbe sembrare antiteatrale, ma, se ben gestite dalla regia, le situazioni “aperte” – il quartetto finale, ad esempio, rimane inesorabilmente sospeso – si rivelano fra le più spendibili in palcoscenico. Nell’allestimento, firmato ancora da Graham Vick come a Batignano, servono a distillare l’azione, lasciando la massima libertà agli spettatori di vagare con la fantasia (una cosa che i bambini sanno fare benissimo), immersi in una dimensione quasi fiabesca, perfetta per una vicenda di sapore orientale.
Lo spettacolo è ambientato in un moderno cantiere – scene e costumi sono di Italo Grassi – fra tubi innocenti coperti da paratie arancioni e un gigantesco raccoglitore di detriti dell’edilizia sormontato da una colonna di bidoni: qui agiscono i personaggi in abiti che evocano un ironico immaginario turchesco. A scongiurare la macchinosità del racconto fatto dall’attore, e a ricondurlo al versante favolistico, bastano semplici trovate – spesso dalle sottolineature comiche – in grado di riposizionare lo sguardo sulla dimensione teatrale: dalla fontana che zampilla in lontananza al bagno di Zaide, reso con la suggestiva tecnica delle ombre (un omaggio al leggendario Ratto dal serraglio di Strehler?). I movimenti mimici di Ron Howell, poi, riescono a suggerire anche le situazioni più complesse con pochi gesti: dalle crudeli, e quasi comiche, torture inflitte al povero Gomatz alla fuga del terzetto protagonista, che sembra allontanarsi sul dorso di dromedari.
Tuttavia, senza un’esecuzione musicale altrettanto efficace, non sarebbe bastato che funzionasse così bene il versante scenico. Daniele Gatti, a capo dell’Orchestra del Teatro dell’Opera in gran forma, ha saputo valorizzare la meravigliosa musica sopravvissuta, mediante una lettura trasparente e leggera, capace di toccare vertici di grande intensità poetica nella prima aria di Zaide e nello splendido Melodram del protagonista maschile (incredibile a dirsi, in questo abbozzo di Singspiel ci sono gli unici due melologi scritti da Mozart nella sua vorticosa carriera).
Gatti poteva contare anche su un buon cast, in cui svettava la magnifica – un soprano di ammirevole perfezione ed eleganza vocale – Chen Reiss: una di quelle mozartiane di cui si è perso lo stampo, perfettamente a suo agio nell’approccio quasi liederistico delle prime due arie così come nella terza, sorta di anticipazione di quella, meravigliosa, di Konstanze nel Ratto. Nei panni del suo innamorato Gomatz, il tenore Juan Francisco Gatell, agilissimo in scena, ha sfoggiato la consueta facilità in acuto. L’ambiguo ministro Allazim, il personaggio meno risolto e su cui si concentra maggiormente l’attenzione di Calvino, era il baritono Markus Werba, talvolta incline a un canto un po’ troppo di forza. Al sultano Soliman, il secondo tenore Paul Nilon, spettava l’altro Melodram (anche questo diretto benissimo da Gatti), seppure di bellezza non paragonabile al primo, mentre il basso Davide Giangregorio è stato un sicuro e spiritoso Osmin. Completava il cast, insieme ai quattro tenori interpreti degli schiavi, Remo Girone – attore di lungo corso in teatro, cinema e televisione – ben calato nel ruolo dell’affabulatore in abiti moderni.
Un pubblico entusiasta ha applaudito a lungo, ma già circolava il timore dell’imminente chiusura dei teatri: forse gli unici luoghi dove finora le regole del distanziamento sono state applicate davvero. E sempre con il massimo scrupolo.
Giulia Vannoni