Con questo terzo intervento ritorno ora all’argomento di queste note. C’è posto per la misericordia nel mondo di un’economia che voglia porsi al servizio della causa dello sviluppo dei popoli? Oppure siamo di fronte a una radicale inconciliabilità? Se quest’ultima dovesse essere l’alternativa, si tratterebbe certo di brutta notizia per il credente cristiano, il quale sa che essere cittadino di due città – quella del dono come gratuità e quella dell’interesse proprio – comporta che tra le due debba realizzarsi un’armonia.
Per fortuna le cose non stanno in quei termini, vale a dire: non siamo tenuti a dovere scegliere tra la pratica della misericordia e l’azione decisa a favore dello sviluppo. Cosa vuol dire, allora, essere misericordiosi quando si agisce nella sfera economica, nelle odierne condizioni storiche? Per ragioni di spazio, mi limito qui a suggerire un paio di ambiti di azione su cui è urgente intervenire per aggredire le cause che impediscono che lo sviluppo dei popoli risulti integralmente umano.
Un primo ambito è quello di prendere finalmente sul serio la proposizione montiniana secondo cui “lo sviluppo è il nuovo nome della pace”.
Tre sono le tesi che valgono a conferire ad essa tutta la sua forza profetica. Primo, la pace è possibile, dato che la guerra è un evento e non già uno stato di cose. Il che significa che la guerra è un’emergenza transitoria, per quanto lunga essa possa essere, non una condizione permanente delle società degli umani.
La seconda tesi statuisce, però, che la pace va costruita, posto che essa non è qualcosa di spontaneo che si verifica a prescindere dalla volontà degli uomini.
La terza tesi precisa, infine, che la pace è frutto di opere tese a creare istituzioni, cioè regole del gioco, di pace: quelle che mirano appunto allo sviluppo umano integrale.
Quali sono le istituzioni di pace che oggi meritano priorità assoluta? Per abbozzare una risposta conviene fissare l’attenzione su alcuni fatti stilizzati che connotano la nostra epoca.
Il primo concerne lo scandalo della fame. È noto che la fame non è una tragica novità di questi tempi; ma ciò che la rende oggi scandalosa, e dunque intollerabile, è il fatto che essa non è la conseguenza di una production failure, a livello globale, di una incapacità cioè del sistema produttivo di assicurare cibo per tutti. Non è pertanto la scarsità di risorse, a livello globale, a causare fame e deprivazioni varie. È piuttosto una istitutional failure, la mancanza cioè di adeguate istituzioni, economiche e giuridiche, il principale fattore responsabile di ciò. Si considerino i seguenti eventi. Lo straordinario aumento dell’interdipendenza economica, che ha avuto luogo nel corso dell’ultimo quarto di secolo, comporta che ampi segmenti di popolazione possano essere negativamente influenzati, nelle loro condizioni di vita, da eventi che accadono in luoghi anche parecchio distanti e rispetto ai quali non hanno nessun potere di intervento. Accade così che alle ben note “carestie da depressione” si aggiungano oggi le “carestie da boom”, come l’economista A. Sen ha ampiamente documentato. Non solo ma l’espansione dell’area del mercato – un fenomeno questo in sé positivo – significa che la capacità di un gruppo sociale di accedere al cibo dipende, in modo essenziale, dalle decisioni di altri gruppi sociali.
Per esempio, il prezzo di un bene primario (caffè, cacao, ecc.), che costituisce la principale fonte di reddito di una certa comunità, può dipendere da quello che accade al prezzo di altri prodotti e ciò indipendentemente da un mutamento nelle condizioni di produzione del primo bene.
Un secondo fatto stilizzato fa riferimento alla mutata natura del commercio e della competizione tra paesi ricchi e poveri. Nel corso degli ultimi venti anni, il tasso di crescita dei paesi più poveri è stato più alto di quello dei paesi ricchi: il 4% circa contro l’1,7% circa all’anno sul periodo 1980-2000. Si tratta di un fatto assolutamente nuovo, dal momento che mai in passato era accaduto che i paesi poveri crescessero più rapidamente di quelli ricchi.
Questo vale a spiegare perché, nel medesimo periodo, si sia registrato il primo declino nella storia del numero di persone povere in termini assoluti (quelle cioè che in media hanno a disposizione meno di due dollari al giorno, tenuto conto della parità dei poteri di acquisto). Prestando la dovuta attenzione all’incremento dei livelli di popolazione, si può dire che il tasso dei poveri assoluti nel mondo è passato dal 62% nel 1978 al 29% nel 1998.
Va da sé che, tale risultato notevole non ha interessato, in modo uniforme, le varie regioni del mondo. Ad esempio, nell’Africa Sub-Sahariana il numero dei poveri assoluti è passato da 217 milioni nel 1987 a 301 milioni nel 1998.
Al tempo stesso, però, la povertà relativa, vale a dire la disuguaglianza – così come misurata dal coefficiente di Gini o dall’indice di Theil – è aumentata vistosamente dal 1980 ad oggi. È noto che l’indice di disuguaglianza globale è dato dalla somma di due componenti: la disuguaglianza tra paesi e quella all’interno del singolo paese. Gran parte dell’aumento della disuguaglianza globale è attribuibile all’aumento della seconda componente sia nei paesi densamente popolati (Cina, India, Brasile) che hanno registrato alti tassi di crescita, sia nei paesi dell’Occidente avanzato. Ciò significa che gli effetti redistributivi della globalizzazione non sono univoci: non sempre guadagna il ricco (paese o gruppo sociale che sia) e non sempre ci rimette il povero (cfr. Milanovic, Global Inequality, Harvard University Press, 2016).
Di un terzo fatto stilizzato conviene dire in breve. La relazione tra lo stato nutrizionale delle persone e la loro capacità di lavoro influenza sia il modo in cui il cibo viene allocato tra i membri della famiglia – in special modo, tra maschi e femmine – sia il modo in cui funziona il mercato del lavoro. I poveri possiedono solo un potenziale di lavoro; per trasformarlo in forza lavoro effettiva, la persona necessita di adeguata nutrizione. Ebbene, se non adeguatamente aiutato, il malnutrito non è in grado di soddisfare questa condizione in un’economia di libero mercato. La ragione è semplice: la qualità del lavoro che il povero è in grado di offrire sul mercato del lavoro è insufficiente a “comandare” il cibo di cui ha bisogno per vivere in modo decente. Come la moderna scienza della nutrizione ha dimostrato, dal 60% al 75% dell’energia che una persona ricava dal cibo viene utilizzata per mantenere il corpo in vita; solamente la parte restante può venire usata per il lavoro o altre attività. Ecco perché nelle società povere si possono creare vere e proprie “trappole di povertà”, destinate a durare anche per lunghi periodi di tempo.
Quel che è peggio è che un’economia può continuare ad alimentare trappole della povertà anche se il suo reddito cresce a livello aggregato. Ad esempio, può accadere – come in realtà accade – che la crescita economica, misurata in termini di PIL-pro-capite, incoraggi i contadini a trasferire l’uso delle loro terre dalla produzione di cereali a quella di carne, mediante un aumento degli allevamenti, dal momento che i margini di guadagno sulla seconda attività sono superiori a quelli ottenibili dalla prima. Tuttavia, il conseguente aumento del prezzo dei cereali andrà a peggiorare i livelli nutrizionali delle fasce povere della popolazione, alle quali non è comunque consentito accedere al consumo di carne. Il punto da sottolineare è che un incremento nel numero di individui a basso reddito può accrescere la malnutrizione dei più poveri a causa del mutamento della composizione della domanda di beni finali. Si osservi, infine, che il collegamento tra status nutrizionale e produttività del lavoro può essere “dinastico”: una volta che una famiglia o un gruppo sociale sia caduto nella trappola della povertà, è assai difficile per i discendenti uscirne, e ciò anche se l’economia cresce nel suo complesso.
(3 – continua)
Stefano Zamagni