Ricciardo e Zoraide, in un bell’allestimento del canadese Marshall Pynkoski, ha inaugurato il ROF del centocinquantenario rossiniano
PESARO, 11 agosto 2018 – Una salutare boccata di ossigeno, una ventata di aria fresca. Ricciardo e Zoraide, lo spettacolo che ha inaugurato il Festival di Pesaro nell’anno del centocinquantenario rossiniano, fa a meno dei riferimenti all’attualità e si affida soltanto alla musica. E il regista canadese Marshall Pynkoski affronta con mano leggera, esaltandone gli aspetti quasi novellistici, una vicenda a lieto fine che pone alla sua radice l’amore fra un crociato cristiano e la figlia di un principe asiatico (il libretto è di Francesco Berio di Salsa, lo stesso dell’Otello): un pretesto che nasconde, dietro la facciata, una feroce lotta per il potere e una subdola rivalità femminile.
Dunque, niente scontro fra bianchi e neri, fra Africa ed Europa (tanto più che a scompaginare le carte ci pensa la bellissima protagonista femminile, la sudafricana Pretty Yende di carnagione scura), estranei alle intenzioni di Rossini, che attraverso quest’opera scritta per Napoli nel 1818 esplora soprattutto nuovi territori espressivi. Ricciardo e Zoraide non è un melodramma completamente risolto, ma presenta caratteri sperimentali che Rossini non avrebbe mai azzardato altrove – il pubblico partenopeo era tra i più aperti alle novità – e assegna ai personaggi non più di un’aria a testa, per concentrarsi invece su un’ampia varietà di pagine d’insieme, spesso splendide, che rappresentano la parte più interessante e riuscita dell’opera.
Con l’ausilio delle scene di Richard Gauci, che puntano su coloratissimi fondali stampati – in grado d’illuminare lo spazio un po’ anonimo dell’Adriatic Arena – realizzati da Artefatto di Reggio Emilia, dei variopinti costumi di Michael Gianfrancesco e delle luci di Michelle Ramsay si delinea un oriente favoloso, filtrato però da una visualità ottocentesca. In questa cornice, il regista canadese pone l’accento soprattutto sulle relazioni sentimentali ed emotive fra i personaggi, esaltandone la gestualità e mettendo sempre il corpo degli interpreti in primo piano. E se i piccoli movimenti delle mani o i protagonisti che spesso si alzano e ricadono sul palcoscenico fanno pensare a codici coreutici, i momenti più lirici ed elegiaci vengono esplicitamente sottolineati da lievi ed aeree danze, grazie alle coreografie di Jeannette Lajeunesse Zingg.
Uno spettacolo dunque da vedere, appagante sul piano visivo ma anche su quello dell’ascolto grazie a un cast di prim’ordine. Sul versante maschile, a contendersi Zoraide, sono il paladino Ricciardo e Agorante, re della Nubia, già ammogliato ma che vorrebbe fare della bella principessa una perla del suo harem. Ovviamente si tratta di due tenori, dalla diversa estensione: uno più acuto, l’altro più centrale. A interpretare il crociato, un beniamino del pubblico di Pesaro: Juan Diego Flórez, che – a quarantacinque anni compiuti – oggi è ovviamente un po’ più cauto nell’affrontare i sopracuti, anche se rimangono per lui di sorprendente facilità. Il suo rivale Agorante era interpretato dal russo Sergey Romanovsky, già fra i protagonisti del ROF lo scorso anno, che ha confermato le sue qualità di solido professionista. Ma la vera sorpresa è arrivata dal terzo tenore: il giovane spagnolo Xabier Anduaga, nei panni di Ernesto, ambasciatore del campo cristiano (e vestito come un cardinale), per la sicurezza dell’emissione, il notevole squillo e l’incisività vocale. Sul versante femminile, si è imposta l’ormai lanciatissima Pretty Yende, soprano leggero dalla voce cristallina: una Zoraide sicura nel trasmettere sentimenti altalenanti, dallo spaesamento alla più determinata risoluzione. Come Zomira, moglie negletta di Agorante, il mezzosoprano Victoria Yarovaya ha esibito sicurezza nelle colorature, voce sostanziosa e sempre ben timbrata alle diverse altezze. Nicola Ulivieri è stato un corretto Ircano, padre della protagonista. Completavano brillantemente il cast Sofia Mchedlishvili, un’espressiva Fatima; Martiniana Antonie, come Emira; e Ruzil Gatin, nei panni di Zamore. Da non trascurare anche il lodevole contributo del Coro del Teatro Ventidio Basso.
Peccato solo per la bacchetta di Giacomo Sagripanti, che non ha saputo sfruttare le caratteristiche di un’ottima orchestra come quella Sinfonica della Rai, perdendo qualche volta per strada i cantanti, mentre fin dall’ouverture si avvertivano incertezze di appiombo ritmico dei fiati. Ha pagato così lo scotto di dover guidare un insieme sinfonico, senza troppa confidenza con l’opera: un compito, questo, che non sempre facilita i direttori, perché li obbliga al massimo rigore e alla più minuziosa precisione.
Qualche dissenso fra il pubblico all’indirizzo del regista, almeno alla prima. Non si capisce davvero il motivo: forse qualcuno si aspettava l’ennesima attualizzazione, che spesso non ha nulla a che fare con le intenzioni del compositore. Senza tener conto che per ottenere certi risultati, considerati tradizionali, spesso ci vogliono mestiere e sapienza teatrale.
Giulia Vannoni