Quante Gabriella Cipolletta ci sono in Italia? Non distese morte su un tavolo operatorio per le complicazioni di un’interruzione di gravidanza, ma molto prima, vive, di fronte a un medico che prescrive un farmaco senza preoccuparsi degli effetti indesiderati. Soprattutto su chi non ha alcun modo di farsi sentire: il nascituro. Un caso tutt’altro che isolato. È successo anche a chi scrive, pochi anni fa, per buona sorte senza conseguenze drammatiche: uno sfogo dermatologico fastidioso, una visita accurata in un nosocomio romano specializzato, una ricetta con due pomate. A casa, stante l’avvertenza del farmacista a riporre in frigorifero le medicine, la curiosità per un prodotto così peculiare da necessitare una conservazione protetta sollecitò la lettura del foglietto illustrativo. Ebbene, nel ‘bugiardino’ era ben evidenziato come il farmaco fosse potenzialmente teratogeno per il feto e non ne era consentito l’uso in gravidanza. Nel dubbio sullo stato dell’arte, le pomate finirono in pattumiera.
Non c’era un bambino in arrivo, ma questo si scoprì solo una settimana dopo: cosa sarebbe successo se le cose fossero andate diversamente? Nessuno dei due medici che mi visitarono per mezz’ora, analizzando con ammirevole scrupolo l’anomala fioritura della mia guancia per formulare una diagnosi e trovare un rimedio, venne sfiorato dal dubbio di trovarsi di fronte una donna in età fertile di cui si ignoravano le altre condizioni fisiche. Bastava chiedere, bastava una domanda semplice, bastava dichiarare quali fossero i rischi nel caso. Ma non è stato fatto. Probabilmente il dermatologo non riteneva di sua competenza quel che concerne la ginecologia, nondimeno avrebbe dovuto sapere che il suo farmaco poteva causare seri danni su un embrione in sviluppo. E se avessi usato le medicine prescritte? E se fossi stata incinta? E se non avessi saputo decifrare un termine difficile e spaventoso come ‘teratogeno’? Interrogativi che mi crucciarono allora e che mi sono tornati in mente con la sfortunata diciannovenne del Cardarelli, morta dopo aver preso una decisione terribile perché spaventata dalle possibili conseguenze di una cura non adeguata al suo stato.
Eppure, ci sono routine consolidate in medicina per quanto riguarda la fisiologia femminile: per dire, se ci si deve sottoporre a una radiografia, la prima domanda è sempre volta a escludere un’eventuale gravidanza. Che i raggi X siano pericolosi ormai lo sanno anche i sassi, ma che ci siano medicine dannose se assunte in gravidanza è un dato per lo più in mano agli specialisti. Se così è, quanti medici si informano dell’eventualità che la paziente che stanno visitando possa essere in stato interessante prima di prescriverle qualcosa di nocivo per il suo bambino? Quanti valutano l’età della donna, della ragazza, seduta nello studio per tutt’altro genere di visita e realizzano che sarebbe utile vagliare l’ipotesi che stia portando in grembo un figlio di cui magari è ancora inconsapevole? La maggioranza, vogliamo sperare, ma l’esperienza purtroppo dice anche altro.
Si parla tanto di gender, ma pochi parlano dell’importanza della medicina di genere: con buona pace di chi vuole l’annullamento delle differenze, non è la stessa cosa prescrivere una pomata antimicotica a un diciannovenne maschio o a una diciannovenne femmina.
Il primo in nessun caso rischierà effetti malformativi a un feto, semplicemente perché è impossibile che sia incinto… Non c’è neutralità possibile di fronte alla natura. Per scongiurare altri drammi, anche quello di scegliere di interrompere una gravidanza divenuta improvvisamente indesiderabile, basterebbe una maggiore attenzione, una sensibilità allenata, il tempo e lo sguardo dedicati davvero al paziente. Anzi, alla paziente.
Emanuela Vinai