“Il significato della stretta relazione interpersonale tra medico e paziente non potrà mai essere troppo enfatizzato, in quanto da questo dipendono un numero infinito di diagnosi e di terapie. Una delle qualità essenziali del medico è l’interesse per l’uomo, in quanto il segreto della cura del paziente è averne cura”. Firmato, dottor Francis Peabody.
È difficile catalogare, descrivere dettagliatamente, porre capisaldi riguardo il rapporto medico-paziente, in quanto questa relazione di fiducia e di stima reciproca dipende da molti fattori inerenti l’incontro tra le molteplici personalità sia di medici sia di pazienti. È possibile, però, cercare di individuare cosa rende positivo tale rapporto, predisponendolo al miglior risultato possibile per il ripristino o il mantenimento della salute.
È stato questo il nodo che si è tentato di sciogliere durante l’incontro sul tema Rapporto Medico-Paziente: quali aspettative e quali difficoltà?
Il meeting, moderato dal coordinatore del progetto Daniele Conti, fa parte del ciclo di incontri “Conoscere per star bene”, voluto e organizzato da alcune associazioni che operano nell’ambito sanitario della provincia di Rimini. Associazioni che hanno unito i propri intenti, organizzando incontri periodici di approfondimento su tematiche attuali e di interesse generale, in cui gli esponenti delle realtà locali si confrontano con gli esperti del settore.
A cercare di capire in maniera più approfondita questo rapporto tra medico e paziente è stata invitata la ricercatrice Paola Mosconi dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche “Mario Negri” di Milano.
“L’informazione è il primo cardine del rapporto medico-paziente, se viene fatta in maniera corretta. – ha argomentato la Mosconi – Le informazioni date dai medici abbondano, in genere, su diagnosi e terapia mentre solitamente crollano sulla prognosi”.
A questo punto la ricercatrice ha fatto un esempio chiarificatore.
“Nel caso dei malati oncologici in fase terminale, solo il 32-34% di essi sono a conoscenza della prognosi del tumore di cui sono affetti. Ciò può comportare scelte di trattamento sproporzionate, per esempio, rispetto all’età e quindi all’aspettativa di vita”.
La comunicazione stessa, dunque, dovrebbe essere concepita come atto terapeutico.
“Il paziente che decide insieme al medico sulla propria salute diventa un cittadino-paziente e non è più solo un malato”.
Il medico deve saper comunicare, spiegando al paziente, con un linguaggio accessibile, come procederà l’iter diagnostico, chiarendo il significato di esami, consulenze specialistiche, indagini complesse strumentali e, in seguito, qual è la definitiva diagnosi e la conseguente terapia, o possibilità terapeutica, con tutti gli eventuali rischi che questa può comportare. In questo contesto le associazioni di pazienti aspirano a giocare un ruolo essenziale.
“L’esperienza anglosassone ha portato a ottimi risultati, le associazioni divulgano informazioni e hanno anche un peso sulla scelta dei vari indirizzi di ricerca terapeutici”, anche se la dottoressa non nasconde che alcune di queste possono essere lobbies.
“Riprodurre le organizzazioni americane, per colmare il gap del rapporto tra struttura sanitaria e pazienti, è il nostro obiettivo – ha invece sottolineato Marisa Monari, dell’associazione Adocm Crisalide – anche i medici più attenti e sensibili, purtroppo, per colpa della burocrazia non hanno troppo tempo da dedicare alla comunicazione e questo porta molte pazienti, in particolare quelle ammalate di tumore, a non fidarsi del medico e a iniziare a girare fra i vari ambulatori, se non addirittura in diverse regioni”.
Dalle testimonianze ascoltate nel corso del dibattito è emerso che esiste una certa resistenza al dialogo: della serie, il medico faccia il medico e il paziente (le associazioni) il paziente.
“Nonostante tutto – ha continuato la Monari – la nostra esperienza a Rimini è positiva e il livello di soddisfazione per la collaborazione con Oncologia è alto; ci stiamo organizzando anche a livello regionale per una collaborazione che speriamo non sia sporadica, ma vera e duratura”.
Ha chiuso l’incontro l’intervento di Valeria Urbinati, dell’associazione Anipi Emilia Romagna.
“Le associazioni possono lavorare per la prevenzione facendo passare informazioni, sostenendo i pazienti e sollecitando aggiornamenti per i medici di base e il personale infermieristico, magari nel campo della psicologia relazionale. La solidarietà va intesa non come fatto occasionale ma come parte del bagaglio culturale di ognuno di noi”.
C’è ancora molta strada da fare rispetto ai paesi anglosassoni. Tuttavia qualcosa anche in Italia si muove.
“Nel rapporto medico-paziente si sta riscontrando, ultimamente, un’apertura, anche se timida, alla partecipazione rispetto alla vecchia dinamica paternalista”, ha concluso la dottoressa Mosconi.
L’essenza della serata si può riassumere nella sua convinzione che “una persona informata è in grado di gestire al meglio la propria condizione di vita e di salute, facendo valere i propri diritti per ottenere così una migliore qualità della vita”.
Una curiosità: alla serata, oltre ai quattro relatori, erano presenti una trentina di partecipanti, ma nessun medico.
Antonio Universi