Esistono atleti in grado di diventare, nel corso del tempo, i rappresentanti di spicco di un’intera epoca nel proprio sport di riferimento. Ed una volta abbandonato l’agonismo, lasciano un grande vuoto che non può essere colmato da chiunque. Solitamente ciò accade quando si parla di grandi giocatori meritevoli di aver segnato profondamente, sia per stile sia in termini di risultati, le vicende della disciplina praticata. Uno di questi è certamente Mario Chiarini, 37enne icona del baseball italiano e romagnolo, che ha da pochi giorni appeso il guantone al chiodo. Il tutto per accettare il prestigioso incarico di manager della T&A San Marino, squadra nella quale ha militato nell’ultimo triennio dopo aver giocato per ben diciassette anni con i Pirati.
Mario, partiamo dall’inizio.
“Erano gli anni ’80 e giocavo a baseball in strada, sotto casa. Un giorno uno dei miei amici mi porta al campo e da lì comincia la mia avventura. Ricordo che a quei tempi praticavo anche il calcio e, infatti, per un periodo ho seguito entrambi gli sport. Poi dal 1989 mi sono dedicato solo ed esclusivamente al baseball e, l’anno successivo, nella categoria Ragazzi ho vinto il primo Scudetto. Erano altri tempi: gli stadi pieni, i settori giovanili più vivi che mai e a vedere le partite dei più piccoli c’erano sempre molte persone”.
Un talento raro il suo che ha provato a sfondare anche in America: che esperienza è stata?
“A 18 anni sono andato a Seattle, giocare in America del resto era il mio obiettivo fin da bambino. Purtroppo erano anni in cui, a causa di questioni burocratiche, restare per diverso tempo sul suolo americano non era possibile: per tenere me, dovevano escluderne un altro. Ora le leggi sono diverse, lo sport in generale si è aperto alla globalizzazione. Le leghe americane prima pensavano di poter scovare talenti solo entro i confini del loro paese, ma da un po’ hanno compreso che con un investimento inferiore possono puntare su giovani forti provenienti da altri stati. Adesso per due o tre anni ti aspettano, valutano il tuo percorso di crescita”.
Ha dei rimpianti?
“No, la mia occasione l’ho avuta. Quell’esperienza mi ha comunque cambiato. Mi ha permesso di vedere tutto in maniera diversa. Inoltre dal punto di vista tecnico ho ricevuto basi enormi, sulle quali ho anche costruito gli anni a venire”.
Dopo l’esperienza a Stelle e Strisce è tornato a casa vincendo lo Scudetto e indossando per la prima volta la maglia della Nazionale: chissà quante pressioni addosso si sarà sentito?
“Mi sono sempre divertito, non posso dire di aver subìto pressioni. Col tempo sono diventato un giocatore importante per la squadra e, non lo nascondo, c’è l’amarezza per aver vinto poco con i Pirati. Il baseball, però, è uno sport di squadra e difficilmente un elemento vince un trofeo in solitaria. Essere nato e crescuto nella squadra della mia città è sempre stato un onore, non un onere, non l’ho mai sentito come un peso anche se la gente si aspettava sempre il massimo. Ringrazierò sempre Rimini perché mi ha dato la possibilità di dedicarmi a ciò che amavo, il baseball, aiutandomi a migliorare”.
Scusi, cosa l’ha spinta a trasferirsi a San Marino?
“Perché non sempre i destini scorrono paralleli. Lasciare Rimini fu una scelta durissima, ma che si è rilevata giusta visto che mi ha permesso di continuare a giocare sempre ad alti livelli per altri tre anni”.
Da giocatore a manager: se lo aspettava?
“Sinceramente no. La proposta mi è arrivata quando ero già nell’ottica della preparazione atletica invernale. Negli ultimi anni ho dovuto gestire alcuni infortuni e non ho mai avuto l’idea di giocare fino a 40 anni. Alla mia età questa opportunità non viene offerta a tutti. Quando si resta fermi per un po’, al termine della carriera, non è sempre scontato si abbiano gli stimoli per ripartire e ci siano i ruoli tecnici disponibili. Ora ho grandi motivazioni che si alimentano ulteriormente per il fatto di poter rimanere ad alti livelli. Per me è un onore che la società abbia pensato al sottoscritto per questo incarico”.
Timori per questa ennesima sfida?
“Non direi. Sono il primo della mia generazione che si appresta ad allenare. Ho una grande voglia di fare. Un giocatore analizza una partita alla volta, magari il giorno dopo, invece un manager le decisioni le deve prendere all’istante. Qualche mazzata nei denti arriverà sicuramente, ma da giocatore ne ho ricevute tante e quindi ho le spalle abbastanza larghe”.
Senta, appendendo il guantone al chiodo, chiuderà anche la sua carriera in Azzurro: non ha pensato alla possibilità di giocare ancora una volta le Olimpiadi?
“I prossimi Giochi si svolgeranno nel 2020, avrei 39 anni. Non ho davvero mai pensato di giocare fino a quell’età. È giusto lasciare spazio ai giovani. Tra Nazionale e club ho partecipato ad ogni torneo possibile ed immaginabile. La casacca Azzurra mi ha arricchito tanto, permettendomi di conoscere una dimensione internazionale”.
Matteo Petrucci