Il suo nome è Francesco Biancuto da Montefiore, abitante a Monte Colombo. A Rimini fa il capo dei ribelli sostenitori dei Malatesti. A Milano ed a Ferrara invece lavora come spia al servizio di Roma e di Alberto III Pio conte di Carpi (1475-1531). I servizi prestati da Biancuto gli hanno meritato il perdono del pontefice per quanto accaduto a Rimini nel 1527, ovvero il rientro dei Malatesti che poi l’8 aprile 1528 ricevono l’investitura da papa Clemente VII.
Politica e libri
Alberto III Pio nasce da Caterina Pico, sorella di Giovanni Pico della Mirandola, il filosofo autore del Discorso sulla dignità dell’uomo. Sposa nel 1494 Camilla Gonzaga (+1515) e nel 1518 Cecilia Orsini di Monterotondo. Dal 1513 è ambasciatore presso la curia romana, prima di Carlo V e, dopo la sua morte (1519), della Francia. “Uomo di molta sagacità ed eloquenza, e versato ne’ politici affari”, lo descrive Pietro Verri. Grande collezionista di libri, è protettore dell’editore Aldo Manuzio, già suo maestro a Carpi. Dopo il sacco di Roma (1527) lascia la città e si trasferisce a Parigi dove muore. Alberto, come osserva S. Cavalletto (2004), dedica l’ultima parte della sua vita ad attaccare il pensiero di Erasmo da Rotterdam (1469-1536) ed il suo Elogio della Pazzia, il cui culmine è posto nella fede che permette di conquistare la felicità celeste, propria dell’altra vita.
Secondo il cardinale ed umanista modenese Jacopo Sadoleto (1477-1547), Alberto è un uomo di grande ingegno e valore. Girolamo Tiraboschi (1731-1794) racconta (Storia della Letteratura italiana) che Alberto è accusato da Francesco Guicciardini di essere un traditore, perché nel 1523 governando per la Chiesa Reggio Emilia e Rubiera, cerca segretamente di farsene signore. Il tentativo è fatto fallire dallo stesso Guicciardini che conosce bene gli ambienti emiliani, prima come governatore di Modena e poi pure di Reggio e Parma tra 1516 e 1517, per volere di Leone X. A Modena e a Reggio, Gucciardini si acquista la fama di funzionario incorruttibile ed inflessibile, scrive G. Dossena che lo descrive come uomo ricchissimo per i possedimenti terrieri e le attività commerciali in mezz’Europa. Nel 1523 è nominato Presidente di Romagna dove (secondo D. Cantimori) mantiene l’ordine con una severità analoga a quella del Valentino, anche se non altrettanto crudele.
Temuto a Rimini
Il profilo di Francesco Biancuto è disegnato da Guicciardini che lo dichiara suo amico. Su di lui nutre fiducia, non crede che abbia tramato contro la Chiesa: “ma quelli di Rimini ne temono assai, e tutto dì ne potresti sentire querele”, scrive al fratello Iacopo, lasciandogli il posto di presidente di Romagna, all’inizio del 1526, quando è chiamato a Roma per occuparsi della politica estera, prima di essere commissario generale dell’esercito pontificio (non riesce a fermare i Lanzichenecchi) e luogotenente di Clemente VII.
Nel testo Delle cose di Romagna a suo fratello Iacopo troviamo giudizi taglienti sulle città a lui affidate: lo mette in guardia sulle difficoltà che avrebbe incontrate. In Romagna occorre “avere nome e opinione di severità”. Qui “sono tante piaghe e tante ingiurie vecchie e nuove”, e gli “uomini sono comunemente disonesti, maligni”, e non conoscono l’onore. Per vincerli non basta punire tutti i delitti, ma occorre “non essere parziali, avere le mani nette, né piegarsi per lettere e intercessioni de’ Cardinali e gran maestri”.
Infinite ruberie
I Romagnoli “temono chi gli mostra il volto, sono assai soliti a essere rubati”. Guicciardini ha cercato di dare loro ardire per invitarli a denunciare le cose mal fatte. Critica il sistema giudiziario civile per le liti che non finiscono mai e permettono agli avvocati di protrarre le cause all’infinito e “rubare” denari ai clienti. Pure i Governatori “cercano di mettere ogni cosa in processo per tirare le sportule”, oggi diremmo tangenti.
Guicciardini spiega di aver lasciato correre per le denunce contro chi giocava “nelle città e contadi, e condannarli, massime i contadini”, ed aggiunge: “Così ho serrato gli occhi negli adulterii ed altre cose” legate alla vita sentimentale. Passando in rassegna le lotte tra fazioni dopo le morti di Leone X (1521), e di Adriano VI (1523), Guicciardini osserva: i delitti dei Ghibellini di Forlì, Imola e Ravenna, “sono stati condannati variamente secondo la qualità dei casi e delle persone”, o con il bando o con multe. Al fratello suggerisce di stare poco fermo in un luogo e di andare spesso a vederli tutti, “perché si contentano i popoli, intendendo le cose più particolarmente, i Governatori stanno con più rispetto, e molti che non hanno modo a andare in altre città, possono dire i fatti suoi”. La città peggiore per lui è Forlì, con odi che sono eterni, e con entrate della Comunità che stanno malissimo. A Cesena invece “non sono insanguinati”.
Le entrate di alcune città “si dissipano per il poco amore e disunione” degli abitanti. I governatori ed i bargelli rubano a man bassa, sono i ladri peggiori. I modi delle ruberie sono infiniti. Uno dei funzionari più corrotti, è il forlivese Antonio Numaio, addetto alle esazioni per la Camera Apostolica, “uomo parzialissimo e di mala natura”<+testo_band>. Egli non paga gli esattori, ma ricava i soldi necessari gravando sui contadini colpiti pure dalle robuste mangerie degli ufficiali addetti alla riscossione.
Clemenza per Rimini
Arriviamo a Rimini. Per quanti non avrebbero voluto rivedere il potere pontificio, fu usata clemenza perché non stava bene lasciar fuori della città troppa gente. Però “vi sono alcuni che non è bene graziare in modo alcuno”, di loro farà una lista. A tutti gli altri ribelli si può concedere la grazia. I contrasti tra guelfi e ghibellini sono forti, ma qui pure i Ghibellini sono partigiani del dominio temporale. Forse in odio ai Malatesti. Guicciardini parla del Porto: “una bella cosa”, se si tenesse bene in ordine, “ma va in rovina perché si riempie; e la Comunità vi spende assai, ma con tanto intervallo di tempo che non può far frutto”. Bisognerebbe farvi una spesa grossa, però la Comunità non può. Valerio Tingoli ed altri mercanti offrivano di farla loro, “ma la Comunità non acconsentì, parte per invidia, parte perché facevano qualche domanda ingorda” (A. Serpieri, 2004). Nell’ultima visita a Rimini, Guicciardini ha pensato ad un progetto, “fare venire qualche maestro intendente, e più di uno, per vedere che rimedio vi fussi buono e di che spesa”. Chiamato a Roma non può realizzarlo più.
Farsi temere
Guicciardini si è fatto fama di persona che non può essere placata: e che “quanto più favori si adoperino meco, sia il peggio”. “Autorità e reverenza”, conclude con il fratello, non si possono conservare se non con lo stile che ha appena descritto, e che ha applicato nel suo ufficio. Nelle Istruzioni a Messer Cesare Colombo suo agente in Roma, Guicciardini ricorda con orgoglio: “Nello entrare mio in Romagna sono fuggiti molti facinorosi”. In un altro scritto, egli passa in rassegna tutte le accuse che gli erano state rivolte, a cui contrappone le Difese dove spiega che in Romagna si è fatto obbedire, ed ha avuto un nome tale da farsi temere.
Il domenicano fiorentino Remigio Nannini (1518-1580), teologo e filosofo, scrive in una biografia (1561) di Guicciardini che la carica di Presidente della Romagna era un ufficio di molta fatica e di molto pericolo per le inimicizie civili diffuse in quei popoli feroci che lui seppe tenere a freno. Altrettanto feroce era la gente di Bologna che Guicciardini andò a governare amministrando la giustizia senza far differenze. Così riuscì a raffreddare l’orgoglio e l’ardore di molte famiglie nobili, che fidandosi della moltitudine e della bravura dei loro seguaci, tenevano perturbata ed inquieta la città.
(5. Continua)
Antonio Montanari
Ritratti di Guicciardini (Cristofano dell’Altissimo), e di papa Clemente VII (Sebastiano Del Piombo)