Una rabbia feroce sconvolge la vita della Romagna e della Marca di Ancona nel 1320: è quella dei ghibellini che vogliono liberarsi dal dominio della Sede Apostolica. A Rimini i Malatesti, scrive Luigi Tonini, sono lodati perché il nostro Comune durava «nell’obbedienza alla Chiesa».
Carlo Tonini osserva: «Anziché dalla corte pontificale venir rimproveri ai Malatesti, vennero lettere di lodi e di benedizioni siccome ai principali guelfi, anzi capitali unici della parte ecclesiastica». Al Comune di Rimini, aggiunge, «giunsero lettere amorevoli» perché «perduravano sotto il governo de’ Malatesti nell’ubbidienza alla Chiesa». L’opposizione dei Romagnoli al governo papale, spiega Cinzia Cardinali, «è di natura politica, e riguarda essenzialmente la condizione di sudditi della Chiesa». Giovanni XXII non cede alle richieste autonomistiche dei romagnoli «utilizzando le accuse di eresia come arma contro gli avversari politici» (G. Franceschini, 1973), e sottopone la provincia ad un controllo più diretto e severo.
La situazione in Romagna
Trasferita la sede del papato da Roma ad Avignone nel 1309, per volere di Clemente V (prima Arcivescovo di Bordeaux e poi Papa dal 1305), i «Comuni dello Stato pontificio perdono rapidamente importanza».
Sono più difficili da controllare i titolari delle Signorie: «I Signori della Romagna e della Marca d’Ancona sono ribelli che conducono al caos politico» (E. Cuozzo, 2009). La Chiesa «non essendo in grado di contrastare i tiranni sul piano militare, si adatta al compromesso» della nomina degli stessi tiranni a vicari apostolici. Più tardi, tra 1353 e 1363, quel compromesso è esteso all’intero Stato pontificio.
Le città romagnole sono passate sotto il controllo della Chiesa a causa della crisi economiche che le ha travolte: piccole e senza capacità di espandersi sul contado, hanno generato forme più fragili di governo rispetto alle altre zone della regione (B. Andreolli, 2004). Leggiamo in B. Andreolli che in alta età medievale «le città restano piccole e fanno fatica ad espandersi sul contado».
Nascono forme di governo molto fragili «sia nella fase popolare, sia in quella signorile»: ciò determina il passaggio sotto il controllo della Chiesa ed in parte degli Estensi. Nel corso del Trecento inizia la «costruzione di solidi domini signorili».
L’egemonia dei Malatesti si realizza tra il 1301 ed il 1320. Pandolfo I nel 1319 aderisce al progetto di Giovanni XXII di lega dei Signori romagnoli per assistere il rettore Aimeric de Châtelus, inviato a restaurare la legalità. Aimeric de Châtelus giunge nella Provincia di Romagna nel febbraio 1320 e convoca il Parlamento. Va a Bertinoro prima di recarsi a Cesena.
Da Cesena scrive al Papa, leggiamo sempre in C. Tonini, che i guelfi imitano i ghibellini per «togliere proditoriamente le castella e le terre della Chiesa». Circa Pandolfo Malatesti osserva che odiava il Pontefice, come testimonia il fatto che si rifiutava di pagare «la taglia pel mantenimento dei cavalli e dei fanti indispensabili a conservare la pace della provincia».
La missione politica in Romagna del Cardinale Bertrando
La penisola italiana era rimasta «estranea ai processi di unificazione territoriale e di costruzione di stati nazionali», escludendo il regno di Napoli. Essa «fu governata da istituzioni politiche che non erano più all’altezza dei tempi»: tramontano i Comuni ed alcune singole famiglie si assicurano il controllo del governo cittadino (D. Carpanetto, 2012).
I Comuni italiani, un tempo floridi centri economici, erano «ormai incapaci di competere con sistemi economici più moderni” (ib.). La crisi delle autonomie politiche al centronord favorisce la trasformazione in uno spazio politico occupato da Stati regionali come quello pontificio, a cui appartiene Rimini (I. Lazzarini, 2006). Il controllo politico della Romagna, ha scritto Gina Fasoli (1975), era stato garantito alla Santa Sede il 4 maggio 1278 con l’accordo con l’imperatore Rodolfo d’Asburgo. Niccolò III vi inviò «i suoi rappresentanti con il preciso mandato di riportare l’ordine e la pace».
I rettori erano «estranei per origine e carriera al mondo romagnolo e generalmente incapaci di intendere i problemi». Il Pontefice il 23 luglio 1319 ha nominato il Cardinale Bertrando del Poggetto Legato per Lombardia, Toscana, Sardegna, Corsica e Stato della Chiesa. L’incarico gli è affidato ufficialmente tra maggio e giugno 1320. Bertrando è colui che nel 1329 brucia la «Monarchia» dantesca, opera in cui si sostiene l’autonomia dell’imperatore rispetto al Papa.
Nella «Storia della vita di Dante Alighieri» di Pietro Fraticelli (1861) leggiamo che «trovandosi verso il 1328 in Bologna, e sentendo che l’antipapa fra Pietro da Corvara» (che aveva preso il nome di Niccolò V, ed era «del partito di Lodovico il Bavaro»), «toglieva argomento da questo libro per sostenere la validità della sua elezione, non si contentò di proibirlo, ma, mosso da soverchio zelo, voleva altresì che si dessero al fuoco le ossa del suo autore».
Nel 1320 il Cardinale Bertrando inizia la sua missione politica in Romagna legittimando l’esistenza dei Signori locali con la concessione del titolo di vicario pontificio e richiedendo un giuramento di fedeltà che rendeva possibile di agire legalmente contro di loro «se fossero venuti meno ai loro impegni», spiega Fasoli: Bertrando però non poté fermare insurrezioni e rivolte, come quella di Bologna che «segnò la fine della sua missione» nel 1334.
L’importanza della Chiesa nel Trecento
Nel Trecento, ha scritto Franco Gaeta (1971), gli Stati cittadini, le monarchie assolute e le città commerciali entrano in conflitto tra loro, «volendo possedere a proprio vantaggio anche lo strumento ecclesiastico», trasformato in una organizzazione oligarchica: ci fu una grande lotta per affermare che l’autorità non discendeva direttamente da Dio, «ma saliva dalla volontà degli uomini che poteva essere strumento d’un volere divino, ma strumento indispensabile».
Antonio Montanari