Che strano! L’appuntamento di quest’oggi con Paolo di Tarso per continuare la nostra intervista non è in un luogo religioso. Mi avventuro sulla scalinata del Campidoglio nel cuore della capitale, un cuore antico, eppure anche oggi così vivo, pieno di traffico e gremito dai turisti. Scorgo San Paolo che con passo svelto attraversa la strada tra i taxi e le automobili. Mi guarda con il solito sorriso.
“Lo so cosa stai pensando – mi dice divertito - stai pensando che un uomo antico come me dovrebbe essere spaventato dalle auto e dai tram… non hai idea quale traffico di portantine, carri, carrozze, cavalli, muli ed asini c’era ai miei tempi in questa strada di Roma. Almeno voi avete il codice della strada, allora c’erano delle leggi edìli che governavano le strade, ma erano per lo più disattese. Roma! Mi sono davvero commosso la prima volta che ci sono arrivato, mai l’avrei immaginata così grande, così bella, così maestosa… ed io Paolo, il “piccolo” di Dio dovevo qui predicare il Vangelo e dare la testimonianza finale della mia vita”.
Il Campidoglio è uno dei mitici sette Colli di Roma, insieme al Quirinale, Viminale, Palatino, Aventino, Celio ed Esquilino. Qui si concentravano gli edifici religiosi più importanti della Roma antica. A condizionare questa scelta contribuì certamente la conformazione del colle, limitato su ogni lato da rupi inaccessibili, tranne che verso il Quirinale, al quale era unito da una sella prima che questa fosse tagliata per la costruzione del Foro di Traiano. Il Campidoglio è caratterizzato da due cime (il Capitolium e l’Arx) separate da una depressione (l’Asylum): la depressione corrisponde all’attuale piazza del Campidoglio, a sinistra e a destra della quale due scalinate portano, rispettivamente, alla chiesa di S. Maria in Aracoeli (Arx) e al Tempio di Giove (Capitolium) dove ora c’è il Municipio di Roma. L’accesso al colle avveniva attraverso un’unica strada, il Clivus Capitolinus (in parte corrispondente all’attuale via del Campidoglio), che partiva dal Foro Romano come continuazione della Via Sacra ed arrivava dinanzi al Tempio di Giove. Sul colle furono costruiti diversi santuari e templi, ma il più grande fu quello dedicato alla Triade Capitolina, Giove Ottimo Massimo, Giunone e Minerva, le quattro colonne di questo tempio oggi reggono il Tabernacolo del SS. Sacramento a San Giovanni in Laterano. Alcuni incendi devastarono quest’area: nel 69 d.C. durante la battaglia tra i partigiani di Vespasiano e i sostenitori di Vitellio e nell’80 d.C. Toccò a Domiziano, divenuto imperatore nell’81, l’onore della ricostruzione. Il colle fu progressivamente abbandonato alla fine dell’impero tanto da essere denominato Monte Caprino perchè ridotto a pascolo per le capre o Colle di Fabatosta perché nel mercato che vi si svolgeva si vendevano le fave, secche o fresche che fossero, un cibo povero per una popolazione povera. La ripresa avvenne all’inizio dell’età moderna fino alla definitiva rinascita nel XVI secolo con la sistemazione ad opera di Michelangelo.
“Allora oggi parliamo della Lettera ai Romani – dice Paolo in un fiato – per questo ti ho voluto incontrare nel cuore della Roma antica. Qui sorgevano i templi dei falsi dèi. Lì sotto dove vedi quella cupola c’è il carcere Mamertino, secondo una leggenda medioevale fummo imprigionati là io e Pietro”.
Di una comunità cristiana a Roma si hanno attestazioni sin dai tempi dell’imperatore Claudio che, secondo una notizia dello storico imperiale Svetonio, prese nel 49 d.C. una misura d’espulsione contro i giudei di Roma che creavano disturbi a causa delle istigazioni di ‘Cresto’. È discusso se l’espulsione fu di alcuni o dell’intera comunità giudaica, ed è discusso se questo ‘Cresto’ sia un nome comune oppure si riferisca a Cristo (l’editto di Claudio è in ogni modo ricordato da Luca negli Atti degli Apostoli quando parla dell’incontro di Paolo ad Atene con Aquila e Priscilla, coppia di giudei espulsi da Roma, cf At 18,2). La prospettiva nella quale Paolo si muove nella lettera non è di contrasto o di polemica con l’ebraismo, anzi egli ai capitoli 9-10 esprime il suo intimo desiderio che le benedizioni di Dio su Israele si compiano. Un antico commento all’apostolo Paolo del IV secolo, l’Ambrosiaster, così scriveva: “Si sa dunque che ai tempi dell’apostolo alcuni giudei, poiché si trovavano soggetti all’impero romano, abitavano a Roma. E fra costoro, quelli che avevano creduto insegnarono ai Romani a conservare la legge pur professando Cristo…”.
Si dice che la Lettera ai Romani sia il suo capolavoro. È certamente uno degli scritti più importanti del Nuovo Testamento dopo i Vangeli. Come mai si convinse di prendere carta e penna e scrivere tra il 54 ed il 58 d.C. un testo così importante ad una comunità che lei non aveva fondato?
“Ho scritto ai Romani mentre stavo a Corinto. Vi ero arrivato nell’anno 54. Desideravo presentare alla nobilissima comunità di Roma le tappe future della mia missione: prevedevo di andare a Gerusalemme per portare la colletta delle offerte che avevo raccolto nelle comunità della Macedonia e dell’Acaia a favore delle comunità della Giudea, e progettavo un viaggio non solo a Roma ma anche in Spagna, scrivo infatti – “Ma ora che ho terminato la mia missione in questi luoghi, conto di recarmi da voi quando passerò per andare in Spagna, perché già da molto tempo ho il vivo desiderio di conoscervi. Spero di vedervi nel corso del mio viaggio e di essere aiutato da voi a proseguirlo. Prima però voglio godere un po’ della vostra compagnia. Ora vado a Gerusalemme, perché devo compiere un servizio a favore dei credenti di quella città… Consegnata ufficialmente questa colletta e finito così il mio compito, andrò in Spagna e passerò da voi a Roma” – (Rom 15, 23-28). Era una comunità che non avevo fondato io, ma conoscevo benissimo alcuni membri di essa. Era formata di numerosi piccoli gruppi di cristiani che si riunivano nelle case, la maggioranza si trattava di cristiani provenienti dal paganesimo (gentili) ma vi erano anche alcuni cristiani provenienti dall’ebraismo”
Dunque lei conosceva quei cristiani ed era anche conosciuto! Cosa si pensava di lei qui a Roma?
“Al capitolo 16 della lettera nomino almeno 26 persone tra cui alcuni amici d’infanzia e alcune famiglie. Volevo chiedere ai Romani di essere ben accolto e di essere aiutato nella missione che stavo progettando. Tutta la lettera respira della mia ansia missionaria. Interpello questi cristiani di Roma, nel corso della lettera, facendo riferimento alle Scritture, offrendo spiegazioni secondo i metodi in uso nelle scuole rabbiniche (midrash) e mi rivolgo a loro come conoscitori della legge mosaica (Rom 7,1). Ci tenevo a far emergere un rapporto caldo e sereno. Si tratta di un testo che dettai con attenzione ad un fratello che mi faceva da segretario, il suo nome risulta in fondo alla lettera: Terzo. Affidai la lettera perché fosse recapitata a Roma nelle sagge mani Febe, una donna che svolgeva la sua attività di apostolato nella comunità di Cencre, uno dei due porti di Corinto. Cosa si pensava di me? In effetti ero un po’ preoccupato (Rom 6,1-7) che fossero arrivate a Roma alcune calunnie sul mio conto, che facevano di me un predicatore “libertino” (niente “opere”, niente più legge, nessun problema per i peccati, solo fede e grazia di Cristo), niente di più falso”.
Qual è il messaggio centrale di questo suo importante scritto?
“Dopo il saluto (1,1-7) e il ringraziamento (1,8-15), che costituiscono l’introduzione allo scritto, ho presentato il tema centrale (1,16-17): il vangelo… potenza di Dio per la salvezza, in cui si rivela la giustificazione di Dio: “Io infatti non mi vergogno del vangelo, poiché è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo prima e poi del Greco. È in esso che si rivela la giustizia di Dio di fede in fede, come sta scritto: Il giusto vivrà mediante la fede”. Nella mia Lettera ai Romani ho voluto far emergere a chiare lettere e con frasi molto efficaci la potenza del Vangelo di Gesù al quale il credente si deve volgere con fede e con tutto se stesso: non una fede dunque solo intellettuale e cervellotica, ma una fede imbevuta della vita d’ogni giorno, fatta anche di scelte e di gesti concreti. Le “opere” contro le quali polemizzo nella lettera non sono dunque l’agire del cristiano ma quei comportamenti religiosi che se svuotati della fede non possono dare la salvezza, perché essa appartiene solo alla grazia proveniente dall’amore di Gesù Cristo attraverso il dono dello Spirito Santo, dono che brilla nella vita cristiana autentica. Del resto è anche il tema della vostra prossima Assemblea Diocesana, se non mi sbaglio… approfondiremo nella nostra prossima chiacchierata alcuni temi che mi stavano e mi stanno tutt’oggi a cuore: la vita in Cristo e nello Spirito, il dono di grazia che riceviamo nel Battesimo”.
(11– continua)
a cura di Guido Benzi