Mafia: gli anticorpi non ci sono

    Siamo ancora all’opera di convincimento? Pare di no. Sulle mafie al Nord c’è ancora molto da dire e molto da far comprendere, ma siamo all’importantissima fase nella quale si dà per assodato che la criminalità organizzata non sia solo affare del Sud Italia ma che in vario modo si sia infiltrata nel tessuto economico e sociale di questo territorio. Piergiorgio Morosini, il magistrato cattolichino che la scorsa settimana ha preso a pretesto la presentazione del suo libro Il Gotha di Cosa Nostra per incontrare la città, ne ha parlato, a buon motivo, come di un qualcosa di assodato. Un dato di fatto, insomma. E come potrebbe essere diversamente? Certo è difficile dire di un fenomeno che non si vede e che non si manifesta con le stesse modalità con le quali si palesa nei luoghi “canonici”, quelli che sono presi a prestito dalla letteratura, dalla fiction, dall’immaginario. Certo è difficile spiegare che la violenza non si vede solo perché è nell’interesse del “sistema” fare silenzio. Il silenzio non si sente, ma in questo caso dovrebbe far rumore.
    È difficile ma si può, lo si può fare soprattutto se, quel fenomeno, lo si spiega attraverso strumenti spiccioli. E sembravano cose ovvie quelle che Morosini, che attualmente opera a Palermo, ha spiegato. “Qui non si tratta di gridare al lupo al lupo, si tratta di analizzare alcuni dati, osservare i risultati di alcune indagini”.
    E i documenti e le evidenze di certo non mancano. Nel novembre del 2009 in un rapporto della Dia (Direzione Investigativa Antimafia) si faceva riferimento all’Emilia Romagna e al gran numero di beni confiscati tra Ravenna, Rimini e Forlì. “La Procura di Rimini ha fatto varie indagini, – continua Morosini – una delle quali ha messo in evidenza dei collegamenti con un gruppo di malviventi che operavano attraverso prestiti ad usura, che avevano interessi nell’attività alberghiera, etc…”.
    Sempre in un rapporto della Dia del 2008 si parla dell’Emilia Romagna come della “Gomorra del Nord”.

    Troppi luoghi comuni
    Ma il punto non è solo questo. Leggere i nomi, rendersi conto delle evidenze può non essere abbastanza di fronte ai luoghi comuni.
    Sulla pericolosità dei luoghi comuni è intervenuto Antonio Zavoli, importante penalista riminese e assessore alla Polizia Municipale negli anni ’80, quando sul territorio si consumava il fenomeno del soggiorno obbligato, quando si allontanavano i criminali dalle loro case per evitare che continuassero con le attività illecite. “Dobbiamo fare a botte con molti luoghi comuni. Non solo quello generico e sempreverde de «la mafia non esiste» ma anche altri. Manca totalmente la dimensione della problematica economica. Io sono sempre molto solidale con chi si occupa di queste cose, soprattutto al Nord Italia. Luogo in cui «queste cose» sono la cima di un iceberg che viene fuori dall’acqua di tanto in tanto”.

    Se non si vede, dove guardare?
    Ma da quale parte dobbiamo guardare per vedere?
    A rispondere è Morosini.
    “Intanto dobbiamo fare una precisazione. A rischio c’è un sistema economico, il mercato del lavoro, un’economia sana. Bisogna fare attenzione, soprattutto, alle pubbliche amministrazioni e al fatto che alcune infiltrazioni possano cadere sui servizi dei cittadini”.
    Una chiara evidenza se solo si pensa ai recenti casi di cronaca giudiziaria che legano il sistema sanitario nazionale ai “maneggiamenti” di alcune importanti famiglie criminose sia siciliane sia calabresi. Ma non si tratta solo di questo.
    “Io guarderei ai subappalti, anche a quelli dei lavori pubblici. Non è raro che dietro a questo si annidino dei passaggi di mano poco leciti”.
    La storia degli anticorpi, della società capace di reagire alle infiltrazioni?
    “In un caso di usura abbiamo visto che i clienti venivano procacciati da un cittadino riminese. È un altro dei luoghi comuni”.
    Cosa non funziona nella lotta alla mafia?
    “Da molte intercettazioni mi sono reso conto che quello che non funziona, nella pubblica amministrazione, è la parte extragiudiziaria. Porto ad esempio un caso, di un comitato d’affari siciliano che faceva capo ad un assessore regionale. In questo caso si finanziavano opere pubbliche che non servivano a nulla. Nelle sue «chiacchierate» il politico non ha mai lascato trapelare di temere l’opposizione in giunta. Non ha mai pensato che ai suoi colleghi politici potesse sembrare strano che l’opera apparisse «debole» rispetto al finanziamento. Non si preoccupava del suo partito, degli altri partiti, l’unica cosa di cui si preoccupava erano le manette. questo vuol dire che qualcosa che non funziona è a monte, prima del nostro arrivo. Non è cosa da poco”.
    No. non è cosa da poco. È sintomo e sinonimo di connivenza, del proliferare di quel “collettivismo bianco” che è base operativa del fare affari. È la stessa classe sociale malavitosa che ha permesso a Bernardo Provenzano di fare il latitante per quarant’anni, ma è la stessa che permette di fare affari al Nord, di smaltire i rifiuti delle ricche industrie del settentrione, e non solo, a pochi centesimi di euro al quitale. È la stessa. È sempre la stessa.

    Angela De Rubeis