Lucrezia Borgia, opera di Donizetti tratta dalla tragedia di Victor Hugo, è andata in scena al Comunale di Bologna
BOLOGNA, 10 maggio 2022 – I sontuosi palazzi rinascimentali trasformati in un mattatoio. Al di là della discutibile cornice, lo spettacolo ideato da Silvia Paoli con le scene di Andrea Belli e i costumi di Valeria Donata Bettella modifica pure l’epoca storica, qui aggiornata a quella fascista. Le sollecitazioni visive della Lucrezia Borgia andata in scena al Comunale di Bologna sembrano guardare a Salò di Pasolini e alla sua denuncia dell’aberrante crudeltà dei potenti, se non fosse per qualche involontario tratto parodistico necessario a far quadrare i conti con i versi di Romani e la musica di Donizetti.
Peccato che librettista e compositore in realtà non intendano proporre una riflessione su sesso e potere, concentrandosi, piuttosto, sulla tenerezza materna di una protagonista che non è solo una spietata avvelenatrice, ma un personaggio sfaccettato e tutt’altro che monodimensionale. Per giustificarne il comportamento, fin dalla breve introduzione orchestrale si vede così Lucrezia bambina che, sotto l’albero di Natale, spacchetta una mantellina da Cappuccetto Rosso. Di fronte a lei sta un uomo, presumibilmente il padre (aleggia dunque l’ombra dell’incesto), che la instrada malamente verso la vita: e la stessa figura ritornerà nel finale in modo ancor più sinistro, con il volto coperto da una maschera da lupo, a siglare il tragico epilogo.
Si potrà discutere se questa visione sia più debitrice dell’opera di Donizetti o della tragedia di Victor Hugo, da cui è tratta: quello che appare del tutto evidente, invece, è come tale lettura non proceda in accordo con quella musicale. Palcoscenico e buca guardano infatti in due direzioni diverse.
A leggere la locandina si scopre poi che l’opera viene proposta nell’orchestrazione di Alessandro Palumbo (che l’ha diretta a Tenerife, da dove lo spettacolo proviene): non se ne capisce il motivo, tanto più che si tratta di una delle composizioni più perfette di Donizetti. Da parte sua Yves Abel, sul podio del Comunale, ha ricavato sonorità precise e trasparenti: ossimoriche, in fondo, per quest’opera profondamente notturna. Così facendo, sfuggono però quelle sfumature noir, ironicamente sulfuree, impresse da un Donizetti ormai maturo – siamo nel 1833 – e con alle spalle già una serie di capolavori.
Sul versante canoro, poi, l’impressione è che ogni interprete si sia regolato secondo le proprie possibilità: latitano sia una conduzione registica in senso stretto sia quella sorta di regia vocale che dovrebbe provenire dalla concertazione. Soprattutto, non bastano due pregevoli interpreti femminili a compensare un contorno maschile nell’insieme fragile e con qualche imbarazzante caduta fra i comprimari.
La protagonista Olga Peretyatko è apparsa fin troppo eterea nel prologo, nelle vesti di madre quasi innamorata del figlio, per poi andare in crescendo durante i due atti, sfoderando un’emissione sempre meno diafana e leggera: ha così impresso al personaggio molteplici sfumature, raggiungendo toni vibranti nell’epilogo. Pur essendo un mezzosoprano – laddove sarebbe richiesto un vero e proprio contralto – Lamia Beuque ha affrontato con scioltezza le agilità, sfoggiando la prestanza fisica necessaria al ruolo en travesti di Maffio Orsini; tutto il contrario del tenore Stefan Pop, nei panni di Gennaro, incapace di render giustizia alla stilizzatissima scrittura donizettiana a causa di un canto poco controllato, con i cedimenti d’intonazione che ne conseguono.
Parte anfibia confacente a un basso come a un baritono, Alfonso d’Este era interpretato da Mirco Palazzi, di cui si poteva apprezzare la qualità degli affondi gravi e un po’ meno la rifinitura del fraseggio. Fra le figure di fianco, da ricordare il Rustighello di Pietro Picone (uno di quei personaggi di tenore comprimario anima nera del proprio padrone, come Normanno in Lucia di Lammermoor e tanti altri, assai congeniali a Donizetti) e lo scherano Astolfo di Luca Gallo.
Alla fine, viene da interrogarsi sulla superficialità di tutta l’operazione, tanto più che in anni non troppo remoti sul palcoscenico del Comunale ci sono state esecuzioni importanti di quest’opera (l’ultima, nel 2001, aveva avuto per protagonista Mariella Devia): difficilmente chi ascoltava per la prima volta Lucrezia Borgia si sarà reso conto delle sue straordinarie potenzialità. Discutibili perfino le scelte del programma di sala, dove nella discografia e videografia “ragionata” colpisce l’assenza di Edita Gruberová, scomparsa di recente, ossia il soprano che in questo scorcio d’inizio millennio ha incarnato più spesso la protagonista. Su di lei ognuno potrà avere l’opinione che vuole, ma ignorarla evoca un leggero sospetto di ostracismo. Se non proprio di censura.
Giulia Vannoni