Le Comte Ory ha inaugurato il quarantatreesimo ROF con un allestimento firmato da Hugo De Ana che non valorizza Rossini
PESARO, 9 agosto 2022 – Certo, a Pesaro tutti conoscono le opere di Rossini e, dunque, si può contare sulla complicità del pubblico. Chi non aveva mai ascoltato Le Comte Ory, però, difficilmente si sarà fatto un’idea sulle caratteristiche di questo incomparabile gioiello: anzi, avrà stentato pure a seguirne la trama.
Il nuovo allestimento con cui si è aperto il quarantreesimo ROF, porta la firma – regia, scene e costumi – di Hugo De Ana, tornato al festival pesarese trent’anni dopo la sua applauditissima Semiramide. Lo spettacolo, però, non punta a dare una vera interpretazione dell’opera: non si scorge una chiave di lettura o – men che meno – un Konzept. Procede invece per accumulo, in un’accozzaglia di trovate discutibili più affini al peggiore avanspettacolo che al sofisticato vaudeville concepito nel 1828 dal libretto di Eugène Scribe e Charles-Gaspard Delestre-Poirson, senza entrare in dialettica né con il testo, spiritoso e leggero, né con una musica raffinatissima e ironica. Il risultato è che, storditi dal continuo susseguirsi di immagini, dopo un po’ si rinuncia a comprenderne il significato e a trovarne una giustificazione.
Prendendo a pretesto la pittura di Bosch (in scena troneggia un gigantesco pannello, non verticale ma ruotato, del Giardino delle delizie), s’innesca una girandola di simboli, senza che sia ben chiaro il legame con Rossini. Si susseguono animali di ogni tipo, uccelli antropomorfi, rettili che sembrano usciti dal Mesozoico, diavoli, angeli, stelle comete e perfino carrelli del supermercato. Nonostante ciò, si sorride poco: anche quello che, nelle intenzioni, doveva essere un divertente siparietto – i sodali del Conte travestiti da suore che, sgambettando, sollevano la tonaca per mostrare i boxer – appare solo un tentativo farsesco, un po’ sguaiato e, soprattutto, malriuscito.
In tale contesto non è facile per gli interpreti, costretti a disimpegnarsi fra incongrui movimenti e continue distrazioni, trovare una loro dimensione e disegnare personaggi definiti. Protagonista Juan Diego Flórez (da quest’anno anche direttore artistico del Rossini Opera Festival), arrivato alla soglia dei cinquant’anni: età ormai tale, per un tenore che aveva il registro sopracuto come punto di forza, da costringerlo a ripensare il personaggio, per quanto già interpretato innumerevoli volte. Se gli acuti non sgorgano più con la naturalezza di un tempo, e spesso richiedono qualche sforzo, il registro centrale si è scurito e permetterebbe d’imprimere al Conte una sensualità inedita. Peccato che tutto si perda e svanisca nel vortice scenico.
La vera sorpresa dello spettacolo sono state comunque due debuttanti del Festival: il soprano Julie Fuchs, che ha sfoggiato nei panni della Contessa grande sicurezza e raffinata eleganza nelle colorature, e il mezzosoprano russo Maria Kataeva, capace d’imprimere varietà di sfumature vocali all’ambigua figura del paggio Isolier. Poco a fuoco, forse perché schiacciati dall’ingranaggio scenico, gli altri personaggi: il baritono polacco Andrej Filonczyc, pur apprezzato interprete rossiniano, non appariva del tutto a suo agio nella comicità scatenata di Raimbaud, mentre il basso Nahuel Di Pierro sbozzava un precettore assai poco incisivo. Più autorevole una veterana come Monica Bacelli nel piccolo ruolo della Dame Ragonde, e promettente la giovane Anna-Doris Capitelli in quello di Alice. Al Coro del Teatro Ventidio Basso – preparato da Giovanni Farina – spettava poi il compito, comunque assolto con buona professionalità, di destreggiarsi in situazioni spesso scenicamente assurde.
L’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai è un ensemble sempre molto compatto, ma Diego Matheuz, dal podio, ha siglato una lettura un po’ scolastica, avara di dettagli e carente di leggerezza. Mentre questo canto del cigno di Rossini (la sua penultima partitura operistica) è uno straordinario, quasi testamentario, esercizio di stile da parte di un compositore che maneggiava il genere comico come nessun altro e che dall’opera buffa, ormai, sembrava essersi allontanato per sempre.
Giulia Vannoni