Il travaglio della Chiesa non era minore di quello della società civile. Gli sconvolgimenti sociali e la povertà incidono come fattore negativo anche sulla pratica religiosa. Tra il 1528 e il 1529 in quindici mesi ben tre vescovi rinunciano all’incarico (Fabio de Cesis, Franciotti degli Ursini e Antonio de Monte), o per essere stati elevati alla porpora cardinalizia o, forse, perché peste, carestia, straripamenti avevano reso meno appetibile la sede.
Vescovi e nunzi…
dunque assenti
Ma anche in condizioni “normali” la presenza dei vescovi non era garantita: difficilmente la diocesi di Rimini era data “in premio” a un nunzio per il servizio prestato, più spesso, invece, era attribuita contestualmente al conferimento di una missione diplomatica, perché i frutti della cosiddetta “mensa vescovile” (che alla fine del ‘400 ammontavano a dodicimila fiorini e alla metà del ‘500 duemila scudi romani) costituivano la fonte di sostentamento economico durante la nunziatura. Per questo i vescovi erano generalmente assenti, impegnati in vari incarichi presso le corti d’Europa, e demandavano la cura della diocesi al vicario o al capitolo della cattedrale. Era facile, così, che un cumulo di cariche finisse nelle mani di pochi, a ostacolare l’esercizio delle funzioni religiose e la sopravvivenza di una vocazione spirituale.
Preti… illetterati
e di bassa moralità
Spesso non era possibile distinguere i preti dall’abito e tanto meno dal comportamento; alcuni davano scandalo per comportamenti moralmente discutibili; raramente avevano fatto studi particolari per prepararsi alle funzioni liturgiche e alla amministrazione dei sacramenti, tanto che, specie nelle campagne, non erano in grado di comprendere le formule e le preghiere che dovevano essere recitate in latino.
La situazione, che non era limitata, per la verità, alla sola Rimini, spinse i monaci camaldolesi Paolo Giustiniani e Vincenzo Quirini a indirizzare al papa – in occasione del V Concilio lateranense (1513) – un libellus che denunciava l’ ignoranza e la bassa qualità morale dei religiosi e proponeva alcune riforme radicali: la riorganizzazione degli studi ecclesiastici, per sostituire alla conoscenza dei classici lo studio dei testi patristici; l’uso del volgare nella liturgia e la traduzione dei testi sacri; la istituzione di una censura preventiva sui testi religiosi.
L’incuria nella formazione del clero si riverberava anche negli edifici sacri, diventati più simili a mercati coperti che a luoghi di culto…
Ma ci sono pure
segni di vitalità
Eppure, anche in questo convulso primo Cinquecento non mancano segni di vitalità.
Nel 1513 il vescovo Simone Bonadies convoca un Sinodo (che in sua assenza è celebrato dal vicario degli Utili), per rafforzare i legami liturgici tra il clero, obbligando alla recita dell’ufficio divino di santa Colomba e di altri santi locali. Impone inoltre ai preti un abito distinto da quello dei laici e obbliga i parroci a scegliere i collaboratori col consenso del vescovo.
I conti Rangoni chiamano a Rimini i frati Gerolomini. Si contano sei monasteri femminili otto maschili e quindici confraternite, legate a chiese e oratori, che organizzano la vita religiosa dei fedeli. I loro membri, che si riuniscono in base ad affinità di mestiere, di ceto o di nazionalità, si prodigano in opere caritative e assistenziali di natura diversa, rivolte non solo ai confratelli e alle loro famiglie, elargiscono elemosine, distribuiscono cibo ai poveri in occasione di ricorrenze particolari, forniscono assistenza e medicine agli ammalati.
Cambiamenti che
anticipano il Concilio
E la pietà popolare, intridendo di sacro la quotidianità, continua a dividere l’anno secondo le feste liturgiche, a ritmare la giornata in base alle ore canoniche e a scandire la vita di ciascuno secondo i tempi dei sacramenti; a iniziare le lettere d’affari con l’intestazione “nel nome di Dio, amen” a non dimenticare nei testamenti un lascito per “messer Domineddio”. E intanto si affida alla Vergine e ai santi per cercare riparo e conforto dai mali della storia.
Spesso, molto concretamente, laddove le parrocchie non garantiscono in maniera sufficiente la pastorale, sono i fedeli a rendersi responsabili: si coinvolgono nella gestione della parrocchia, sono attivi nel chiamare e sostenere economicamente comunità di religiosi che garantiscano una presenza stabile per la cura d’anime, come accadde, per fare un esempio per tutti, a Verucchio. Tanto che si può affermare che la riforma tridentina, più che una svolta radicale, sia stata a Rimini un completamento di una tendenza già in atto, una ripresa di spunti devozionali già ben radicati.
(2-continua)
Cinzia Montevecchi