Mutoko. È una città dello Zimbabwe. Che è uno stato dell’Africa meridionale, molto meridionale, per intenderci a sud confina con il Sudafrica. Più in giù l’Africa finisce. Ultima nota geografica: lo Zimbabwe non affaccia sul mare. Ma effettivamente questo non ci importa. Circa a diecimila chilometri dall’Italia. Per arrivarci ci vogliono 84 giorni a piedi, in macchina 178 ore, circa 20 ore in aereo, con due scali. Questo per dire che arrivarci è un viaggio, ti ribalta la concezione del mondo, ti sposta rispetto all’equatore, cambi emisfero, cambiano le stelle, perdi i soliti punti cardinali.
A Mutoko c’è una missione della diocesi di Rimini, molto conosciuta, con l’ospedale dedicato a Luisa Guidotti e l’orfanotrofio. Da anni Mutoko è meta per molti giovani riminesi che vogliono vivere un’esperienza di volontariato forte, che vogliono mettersi in cammino, che sentono che è il momento di una svolta e passare anche solo due settimane dall’altra parte del mondo sembra un buon inizio. E a volte funziona.
A dimostrarlo sono gli stessi ragazzi di Rimini, che di ritorno da Mutoko, qualche mese fa, si sono ritrovati in parrocchia a Santarcangelo e hanno organizzato una serata per raccontare la propria esperienza in Zimbabwe: “Rimini-Mutoko, un ponte di solidarietà”. Li abbiamo incontrati, per sentire direttamente il racconto di un viaggio dal quale “siamo tornati più ricchi di umanità”. Da questo incontro sono nate delle profonde riflessioni, che riportiamo di seguito.
Emme come…
Mettersi in gioco. “È necessario. – spiegano – La vita là ti coinvolge, ti prende, non ti lascia stare con le mani in mano. I lavori manuali ti impegnano, i bambini ti circondano con i loro sorrisi e quegli occhi pieni di parole. Che poi non vi capite, ma non è quello il punto. In assenza di tutto si riesce a toccare l’essenza della vita. È un tempo di dono di sé e delle proprie forze, della propria presenza. La condivisione che viene fatta ogni sera su come si è vissuta la giornata, sui pensieri, le emozioni che l’hanno accompagnata è fondamentale. Riflettere sulla propria esperienza rigenera e permette di assorbirla, di darle senso, di custodirne ciò che davvero sta a cuore”.
Un proverbio africano dice “Da soli si corre più veloci, insieme si va più lontano” e portarsi queste parole al ritorno, quando si è di nuovo a casa nella vita di prima, nel lavoro di prima significa colorarli di una luce diversa. “C’è un prima di Mutoko e un dopo. È un viaggio che radicalmente ti cambia, ti fa scoprire nuove priorità, fa nascere in te la voglia di un contatto quotidiano con Dio, con la Parola che diventa davvero parola che disseta”.
Missionarietà. Appena torni la prima impressione “è di rigetto, di spaesamento di fronte a tutto il superfluo che sembra esserci a Rimini, nella tua vecchia vita. È il caos”. Come poter sentire di nuovo quell’essenzialità? Come far sì che non vada perduto ciò che sei diventato? Come tornare a vivere qui?
È in quel momento che l’esperienza fatta diventa stile di vita. E succede arrendendoti all’evidenza, apparentemente semplice, che la missionarietà può fare parte della tua vita quotidiana, che anzi ne è già diventata parte. “Questo cambia il tuo sguardo sul mondo, le tue decisioni, le priorità. Può modificare le amicizie, mettere in crisi delle relazioni, delle abitudini”. Eppure è una missionarietà, una voglia di incontro e di farsi prossimo, che influenza il tuo lavoro, le scelte dell’università, l’ambito di volontariato in cui scegli di impegnarti. È vivere la propria vita, in tutte le sue sfaccettature, in apertura al mondo, accogliente.
All’orizzonte…
E chi, invece, deve ancora partire per Mutoko? Chi ha già scelto questa esperienza, ma ancora non l’ha fatta in prima persona? Quali sono le aspettative? “Partendo c’è curiosità, desiderio di incontro di un mondo così lontano e così diverso. Ci sono i racconti di chi ci è già stato, il vederli così diversi e voler toccare con mano cosa succede davvero laggiù. Ci si aspettano tante domande nuove e poche risposte. Ci si aspetta di capire qualcosa in più di sé stessi”.
Lucia Zoffoli