Destinato a non vedere mai la luce per un’ infinita serie di traversie (nel primo progetto ci lavorarono Johnny Depp e Jean Rochefort) e tracolli finanziari (vedi Lost in La Mancha, 2003), L’uomo che uccise Don Chisciotte, progetto fortemente voluto dal regista Terry Gilliam, esce finalmente in sala ed è una vera e propria festa per gli occhi e non solo.
Nel bizzarro racconto di un giovane regista destinato agli spot pubblicitari (Adam Driver) che ritrova le tracce di un suo filmino giovanile in bianco e nero dedicato all’eroe di Cervantes e, soprattutto, l’anziano attore che aveva interpretato il cavaliere errante nella produzione degli esordi, ormai completamente trasformato in Don Chisciotte (Jonathan Pryce), c’è l’inequivocabile resa delle armi per un cinema che ormai quasi nessuno ti fa più fare, nel segno di un potere commerciale che guarda al profitto e se ne infischia della creatività.
Meno male che ci sono in giro ancora autori come Gilliam che combatte per assicurare allo spettatore il godimento visivo ed intellettuale di fronte a questa ricca e, certo, a tratti anche frastornante (ma non sarebbe un film di Gilliam) rivisitazione di uno dei personaggi più stimolanti della letteratura mondiale.
Don Chisciotte è l’eroe costruitosi da sé alla ricerca del suo sogno di avventuriero, tra donzelle da salvare, la damigella del cuore (la Dulcinea interpretata da Joana Ribeiro) e giganti da sconfiggere e ci piace vedere Terry Gilliam come una sorta di Sancho che, come nel film, ha modo di trasformarsi nel suo “maestro”, diventando il testimone raro e prezioso della necessità di mantenere la fantasia al potere.
Girato in Spagna e Portogallo, L’uomo che uccise Don Chisciotte è la conclusione di una sfida giocata per 25 anni tra arte e potere, tra destino e volontà creativa: qui vince il regista!