Al Teatro Costanzi l’opera di Alban Berg in un allestimento dell’artista William Kentridge
ROMA, 25 maggio 2017 – Replicare un capolavoro come Wozzeck sarebbe stato forse impossibile. Oltre tutto Alban Berg, quando morì nel 1935, non aveva ancora portato a termine Lulu, sua seconda e ultima opera: resta così il dubbio che il compositore avrebbe potuto trasformare ancora la materia sonora imprimendole una maggiore concisione. Anche in questo caso l’intento è di dar corpo alla parabola – affrontata in chiave femminile – della lenta discesa verso la fine del protagonista: una scelta piuttosto lontana dagli schemi operistici della tradizione. A rendere più complesso il quadro, rispetto a Wozzeck, intervengono una folla di personaggi – tutti gli adoratori di Lulu – ed echi politicosociali (come il gioco della Borsa) che, se da un lato contribuiscono a definire il binomio sesso e denaro, dall’altro appaiono piuttosto ingombranti per coagulare sul piano drammatico.
Fu lo stesso Berg, anche questa volta, a scrivere il libretto in tre atti, a partire dai due drammi di Wedekind Lo spirito della terra e Il vaso di Pandora, organizzandone la struttura in modo tradizionale, con tanto di numeri (e dunque un’articolazione in arie, duetti e pezzi d’insieme), in antitesi però con un contenuto incandescente e anticipatore del futuro. Lulu pertanto non è un’opera facile, né d’impatto immediato: caratteristiche che, nel tempo, ne hanno limitato drasticamente la circuitazione.
Lo spettacolo messo in scena al Costanzi di Roma (città legata a Berg più di ogni altra, e che ospitò la prima italiana di Wozzeck nel 1942) è frutto di una coproduzione con l’Opera di Amsterdam, il Coliseum di Londra e il Metropolitan di New York, dove ha debuttato due anni fa. Ma, a dispetto della complessità, sembra concepito per rendere accattivante il difficile soggetto: un merito che spetta soprattutto all’allestimento di William Kentridge. Il grande artista sudafricano (coadiuvato da uno staff tecnico d’incredibile bravura) crea una cornice visiva da Kabarett espressionista tedesco, anni venti/trenta: pochissimi oggetti scenici rigorosamente art déco e una danzatrice muta, che – come una marionetta – contrappunta con la sua gestualità stilizzata quanto accade nel dramma (in seguito a lei si aggiungerà un cameriere altrettanto muto).
La narrazione evoca una suggestiva graphic novel: su quinte mobili scorrono le proiezioni dei disegni a inchiostro – con l’inconfondibile segno di Kentrige – colte nel loro continuo divenire, come un libro che viene sfogliato pagina dopo pagina, in un processo d’incessante cancellazione e riscrittura. Questa visualità in bianco e nero (con qualche ammiccamento al film di Pabst con Louise Brooks), interrotta solo dalle macchie di colore dei bei costumi di Greta Goiris, crea un effetto ipnotico: oltre a dar corpo alle ossessioni dei personaggi, riesce a imprimere una coerenza allo spettacolo che la musica non sempre manifesta.
Sul podio dell’Orchestra del Teatro dell’Opera, Alejo Pérez – che ha diretto la versione con il terzo atto orchestrato da Friedrich Cerha – è riuscito a ottenere un suono nitido dagli strumentisti, facendo avvertire lo struggente lirismo racchiuso in sonorità costruite attraverso la scala dodecafonica, accanto all’effetto destabilizzante d’innesti provenienti dalla musica di consumo – dal jazz al cabaret – e, persino, a un velato omaggio pucciniano nel duetto che conclude il secondo atto.
Per gli interpreti si tratta, invece, di una fatica improba, costretti a misurarsi in una scrittura che alterna lo Sprechgesang a un canto innestato su un’orchestra di denso spessore fonico. Nei panni della protagonista, il duttile soprano Agneta Eichenholz domina la difficile scrittura di Berg, disegnando un personaggio che ha ben poco della femmina sensuale: il suo potere di seduzione è solo negli occhi di chi la guarda, di quegli uomini che in lei vedono un vertice di erotismo e nello stesso tempo la vorrebbero moglie fedele (ponendo così le premesse per lo scivolamento dalla farsa in tragedia). Tra i numerosi altri personaggi, tutti satelliti di Lulu, l’unico positivo – ancorché devastato – è la contessa Geschwitz, affidata al mezzosoprano Jennifer Larmore che, dopo aver cantato tanto Händel e Rossini, è ora passata al novecento. Interprete sia del dottor Schön e, per una forma di nemesi, sia di Jack lo Squartatore, l’espressivo baritono Martin Gantner. Il basso Willard White incarna Schigolch, l’unico uomo forse non attratto da Lulu, ma interessato solo a sfruttarla economicamente; e un altro baritono, il più modesto Zachary Altman, ha interpretato prima il domatore del circo e poi l’atleta. Nei panni del compositore Alwa, figlio di Schön ed evidente ritratto autobiografico di Berg, il tenore Charles Workman, altro rossiniano convertitosi alla modernità. Nel duplice ruolo del pittore – secondo marito di Lulu – e poi di un negro, fra i suoi clienti nell’ultima scena, ancora una figura tenorile, l’incisivo Brenden Gunnell. Nessuna personalità particolarmente carismatica sul piano vocale, ma una squadra compatta e ben rodata. Più o meno sempre all’altezza del compito.
Giulia Vannoni