Sergio Zavoli pubblicò a settantadue anni il primo libro di poesia, Un cauto guardare (1995), e proseguì con In parole strette (2000), L’orlo delle cose (2004), La parte in ombra (2009), L’infinito istante (2012), fino a questo bellissimo La strategia dell’ombra (2017), tutti editi da Mondadori, gli ultimi quattro nella collana dello «Specchio».
Insieme formano l’autobiografia poetica di una vita intensa, e preminentemente pubblica. Dimostrano che nel lavoro del protagonista geniale del mestiere di cronista, giunto alle massime cariche direttive dell’informazione e della RAI, e senatore dello Stato italiano, la poesia non è stata una fioritura tardiva, bensì lo spirito che sin dall’inizio ha mosso lo stile dell’uomo, coronandone la completezza. I servizi radiofonici e televisivi d’attualità anche sportiva a partire dal memorabile “Processo alla tappa” inventato per la Radio nel 1958, il documentario sulle suore di clausura nel 1957, quello sull’allunaggio del 1969 con von Braun, programmi come “Nascita di una dittatura”, i reportages, le indagini storiche, le diciotto puntate de “La notte della Repubblica”, il tono delle inchieste e delle interviste, nell’eredità di un umanesimo figlio della curiositas e rispettoso della dignità umana, sono sempre stati dettati dall’animo di chi è capace di stupore, la dote necessaria per scoprire e inventare che è propria del poeta, che non dà nulla per scontato, e vede quello che gli altri non vedono. Sfiorando consapevolmente l’ingenuità del bambino, e mantenendo il proprio rapporto con l’infanzia, continua a nutrirsene. Così è capace di trasmettere agli altri l’ammirazione che prova, li scuote dal torpore dell’abitudine, dall’indifferenza, dall’apatia.
Come i libri di prosa hanno affiancato il mestiere del cronista raccontando, i sei libri di poesia ne traducono il senso profondo, sempre più emblematicamente, in quella “nitida coerenza tra pensiero e linguaggio” di cui Carlo Bo aveva pronosticato la lunga maturità della vocazione, e la luce “ancor più dichiarata e pura”.
Nel vaglio che raffina le esperienze descritte, Zavoli (nella foto a dx con il regista Pupi Avati a sinistra, durante la presentazione del libro al Fulgor) le trasforma in realtà di altra sostanza. Gli è possibile farlo adesso, dopo avere «imparato a essere mortale, / a percepire anche la trascendenza verso il basso, / la tua santa materia», come scriveva a conclusione de L’infinito istante, dove la «santa materia» di Teilhard de Chardin conforta la lode e il desiderio di prolungare la vita: «lasciami ancora un po’ gli uccelli / dentro i rami». Zavoli è fedele a se stesso. Nel proprio essere al mondo destina al linguaggio della poesia il pensiero che si elabora naturalmente in simboli, e lo segnalano i titoli dei libri. I primi tre indicano il punto di partenza: la virtù della discrezione, cuore della civiltà contadina che è stata semidistrutta dalla seconda guerra mondiale (Un cauto guardare, In parole strette, L’orlo delle cose). Il padre e la madre appartengono a una cultura salda al Vangelo, la mano del padre è guida e nido dove granisce la piccola mano del figlio; i gesti protettivi della madre gli insegnano a stare all’orlo delle cose, pago del poco che serve: «E ancora cerco un alito di me annidato / a quella pace chiara, taciturna.».
Gli ultimi tre titoli, fino a La strategia dell’ombra approfondiscono e assolutizzano il vastissimo tema dell’ombra, nella sua doppiezza e ambivalenza. L’ombra diventa l’insegna araldica dell’uomo e della poesia, in ricchezza e profondità. Le domande restano e si intensificano. Per Zavoli forse l’ombra è una origine, come pensava Jorge Luis Borges nel suo estremo Elogio dell’ombra (1969): «Forse la sorgente è in me. / Forse dalla mia ombra / sorgono, fatali e illusori, i giorni». Ombra siamo noi – “sogno di un’ombra è l’uomo”, scriveva Pindaro nell’ottava Pitica. Ombra è il nostro vissuto. Refrigerio, manto notturno di Iside e Maria. E all’opposto tenebra, estraneità, minaccia generatrice di mostri: Male.
Anche questo libro ripropone l’ombra della storia, le testimonianze del secolo, i ricordi familiari, le esperienze di lavoro. Le prime dieci poesie introducono ai temi. Ne seguono altrettante di ricordi di guerra, poi due sull’entità della pace affidata alle mani di padri e madri che stringono il tempo, nei passi verso casa. Quindi è la sequenza di persone e luoghi, le prove, le rinunce, le utopie, le domande senza fine – come quelle a Federico Fellini – le tracotanti imposizioni di scienza e potere, le preghiere per la pace e la pietà: testi commoventi come quello del piccolo migrante, che il mare dondola e consegna. In congedo l’amore, la speranza delle lucciole nuziali, «il simbolo che dica / vincerà la vita».
Tuttavia qui ogni ombra si schiera in una superiore strategia, ubbidendo alla suprema tessitura della luce. Gli occhi hanno acquistato distacco. Simili a due farfalle che «dopo la battaglia, / si posino indifferenti sui vinti uccisi / e i vincitori addormentati», tornano a posarsi senza peso sulla “selva oscura” da cui Zavoli è partito nel dopoguerra per il suo esilio laborioso. Si fermano sul presente, dal cratere dove ciò che vale non è cercare solo se stessi, ma vivere seguendo l’amore come guida. Strategia dell’ombra-poesia è porsi nell’«ombra della luce vivente»: farsi riflesso per riflettere, secondo l’immagine di Ildegarda di Bingen. Così le bianche farfalle effimere degli orti, che si confrontano con il marmo del Tempio e il chiarore della Luna, imitano l’inattingibile “equidistanza” di chi fa sorgere il sole sui malvagi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e gli ingiusti (Mt 5,43-5).
Tornando nella sua Rimini, Sergio Zavoli ha rinnovato al Fulgor il rito tra luce e ombra che è l’essenza del cinema da cui è stato conquistato proprio lì con Federico Fellini. Ecco come lo descrive una delle due poesie dedicate all’amico ne La strategia dell’ombra:
«(a Federico e al Fulgor) Tutto accadeva altrove, e noi eravamo / avvinti dalle storie animate / da un fascio luminoso, / finché ci scendeva sugli occhi un telo nero / con la scritta the end, che detestavi, / quando alle tre del pomeriggio si andava / a vedere un film d’amore, una vita ogni volta / lunga un’ora e mezzo.».
Rosita Copioli