Andato in scena al ROF il capolavoro rossiniano Ermione in un bellissimo allestimento di Johannes Erath
PESARO, 9 agosto 2024 – La tragedia greca può essere declinata in modalità contemporanea. E senza bisogno di forzature drammaturgiche. Nella nuova messinscena di Ermione per il ROF, il regista Johannes Erath sembra guardare, ancor più che ai versi di Leone Tottola, alla fonte librettistica – l’Andromaque di Racine, a sua volta ispirata a Euripide – e ricollega così i personaggi direttamente ai loro archetipi, consegnati all’immortalità dai grandi tragici greci.
I personaggi principali, infatti, discendono tutti da genitori ingombranti e la regia – con intuito psicanalitico – evidenzia come su di loro si allunghi l’ombra dei padri, per condizionarne le azioni fin quasi a perseguitarli. Al centro c’è appunto Ermione, figlia di Elena la cui bellezza era stata causa scatenante della guerra di Troia. Accanto a lei troviamo Pirro e Oreste, figli di due grandi protagonisti di quel conflitto come Achille e Agamennone. Progenie di Ettore, invece, è il piccolo Astianatte. Quest’ultimo, nel libretto, sarebbe un ruolo di fanciullo muto, ma la regia lo trasforma in un giovane prigioniero delle tante guerre contemporanee; ed è straziante il filmato in cui lo si vede bambino, mentre scaglia lontano il suo cavallo a dondolo: evidente richiamo al cavallo di Troia, appunto, e a quella guerra che gli ha rubato l’infanzia.
Lo scenografo Heike Scheele concepisce tavole imbandite, in grado però, grazie alle proiezioni di Bibi Abel, di trasformarsi all’occorrenza in sala teatrale (l’immagine restituita sul fondale è proprio il Teatro Rossini di Pesaro). Il rapporto tra versante alimentare ed esibizionismo da ribalta crea una potente dialettica con le vicende di personaggi devastati; e, con sottile gioco metateatrale, alle due stelle polari – cucina e musica – di Rossini stesso. Nel risalire alle radici del dramma, queste scelte registiche da un lato ne scardinano la superficie e, dall’altro, trovano invece un preciso corrispettivo nella musica. Con Ermione, infatti, il compositore sovverte ogni regola della sintassi operistica, destrutturandola e azzardando strade innovative che disorientarono i rossinisti dell’epoca, a cominciare da Stendhal. In lontananza si può scorgere il modello della tragédie-lyrique settecentesca, ma Rossini lo rivitalizza e introduce innovazioni debitrici al sinfonismo tedesco più che al melodismo italiano: dall’assenza di cavatine o di un qualsivoglia duetto d’amore a una Sinfonia inframmezzata dal coro (a Pesaro è quello del Ventidio Basso, sottoposto dal regista a un notevole impegno attoriale).
Tutto questo, oltre che dall’aspetto visivo, deve venire però estrinsecato dall’esecuzione musicale. Michele Mariotti è un direttore che trova in Rossini il suo autore d’elezione: tuttavia è apparso poco incline a sottolineare certe matrici d’ispirazione francese e tedesca, puntando su un andamento scorrevole della partitura, che privilegia la cantabilità e fornisce un valido sostegno agli interpreti. La sua Ermione guarda a un Rossini altrettanto affascinante ma meno sperimentale, dove il nitore del suono è la qualità primaria. E in questo trova un’ottima sponda negli strumentisti dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai.
Anastasia Bartoli ha disegnato una protagonista tormentata, perseguitata dai fantasmi del passato: in un filmato si vede la madre correre sulla spiaggia, poi, con uno slittamento di piani visivi, il volteggiante velo nuziale serve a trascinare una tavola imbandita, quasi per trasferire quel rapporto conflittuale sul cibo. Ora crudele, ora stremata dalla propria incapacità di riconquistare Pirro, il giovane soprano – qui impegnata in uno dei più micidiali “ruoli Colbran” – può contare su un bel registro grave, ma riesce a gestire bene anche le ascese in acuto, dimostrando sempre un notevole temperamento drammatico. A interpretare Andromaca, sua rivale senza averne l’intenzione (Erath ce la mostra incanutita nel perenne ricordo del marito Ettore e attanagliata dall’angoscia per le sorti del figlio Astianatte), il mezzoprano Victoria Yarovaya: stilista rigorosa, sebbene i suoi notevoli mezzi vocali siano apparsi talvolta un po’ appannati.
Anche nel caso di Juan Diego Flórez lo smalto vocale ha perso parte della sua lucentezza. Tuttavia, il cinquantunenne tenore peruviano riesce ancora a stupire per la sicurezza con cui affronta l’acutissima tessitura di Oreste, disegnando un personaggio debole e manipolabile (un’anticipazione di quel che accadrà nella straussiana Elektra?). Nelle vesti del violento e capriccioso Pirro, invece, Enea Scala ha incontrato più di una difficoltà a misurarsi con un’ardua scrittura da baritenore. Può tuttavia contare su una notevole prestanza scenica.
Assai validi i comprimari, che la regia trasforma in una sorta di alter ego dei protagonisti. A cominciare da Pilade (il “terzo tenore” di tante opere rossiniane), interpretato con scioltezza da Antonio Mandrillo, e dall’istrionico basso Michael Mofidian come Fenicio: i due, nel sottofinale, danno vita a un duettino di sapore quasi cabarettistico, che delinea l’ambiguità dei loro ruoli. Da ricordare poi, per la sua suggestiva timbratura mezzosopranile, Martiniana Antonie nei panni della confidente Cleone. Al novero degli interpreti Erath aggiunge Cupido, che si aggira per il palcoscenico, brandendo la sua freccia al neon. Tuttavia non la scaglierà mai, perché fra i personaggi non s’instaurano autentici legami d’amore. Semmai permette di evidenziare i loro rapporti malati.
Giulia Vannoni