Nell’antichità era conosciuta come Arabia Felix, una terra ricca di alture e corsi d’acqua, di spezie; crocevia di traffici e commerci. I nomi delle città hanno un suono che evoca memorie esotiche, come Sana’a, la capitale, con i palazzi arabescati color sabbia, o Aden, circondata dalle montagne. Ma questi sono ricordi, memorie appunto, perché oggi lo Yemen è uno dei paesi più poveri al mondo. Lo era da prima del 2015, e lo è maggiormente da quell’anno, quando scoppiò una guerra prima civile e poi allargatasi ad una coalizione di stati. Come tanti conflitti che agitano il medioriente le vere cause della guerra si perdono in un turbinio di ingerenze ed affiliazioni che danno vita ad una catena infinita di cause ed effetti. Difficile dire perché si combatte ancora, ma in ogni caso la guerra prosegue, nonostante – o anche grazie al supporto – di un pesante silenzio da parte dei media.
Lo scorso 12 novembre, l’Associazione Michele Pulici ha organizzato al centro della Pesa di Riccione, un incontro all’interno della rassegna degli Incontri del Mediterraneo, dal titolo: Yemen, la guerra dimenticata, per provare a gettare luce sul dramma del paese. A confrontarsi con la platea: Laura Silvia Battaglia, giornalista freelance e documentarista, specializzata in Medio Oriente e zone di conflitto, in particolare Yemen e Iraq; e Roberto Scaini (nelle foto), medico riminese, dal 2011 operatore umanitario di Medici Senza Frontiere (MSF). Gli abbiamo chiesto qual è la situazione del paese e del conflitto.
“Sono rientrato a maggio dalla quinta missione in Yemen. La prima volta ci sono stato nel 2013, e poi, praticamente, a cadenza annuale. Lo dico solo per sottolineare che se Medici Senza Frontiere continua ad esserci così tanto in un paese, una ragione c’è. C’eravamo prima dello scoppio del conflitto, per la situazione specifica dello Yemen, che è sempre bene ricordare è uno dei paesi più poveri al mondo, sicuramente il più povero della penisola araba, e poi dallo scoppio della guerra nel marzo 2015 la situazione è deteriorata e purtroppo devo dire che tornando nel corso dei vari anni non c’è stato alcun miglioramento. Peraltro il fatto che questo sia uno dei tanti conflitti dimenticati, altro non fa che peggiorare la situazione, perché purtroppo quando si spengono i riflettori e non c’è l’attenzione mediatica, si perpetuano situazione che non andrebbero mai accettate”.
Roberto sarebbe dovuto ripartire tra pochi giorni, il prossimo 12 dicembre, ma un evento lo ha costretto a rimandare il viaggio. “Avevo nei programmi di tornare. Alcune settimane fa ho ricevuto la richiesta di recarmi all’ospedale di Mocha, il prossimo 12 dicembre. Poi però negli ultimi scontri c’è stato un pesante attacco missilistico nel quartiere dove si trova l’ospedale, che è stato in gran parte distrutto. Non è la prima volta che questo succede. Se pensiamo che in una zona guerra gli operatori umanitari sono spesso gli unici rimasti a fornire cure mediche alla popolazione, si può ben capire quali conseguenze porti la distruzione di un ospedale. Non ci sono state vittime durante l’attacco, ma ce ne saranno proprio perché l’ospedale è stato chiuso e non sappiamo quando potrà riaprire”.
Cosa sta succedendo in Yemen?
“La guerra è nata come una guerra civile e poi in breve tempo ha preso l’aspetto di una guerra internazionale, con una coalizione guidata dall’Arabia Saudita ed Emirati Arabi e altri paesi, contro i ribelli Houthi, che hanno dato origine alle schermaglie e alla guerra interna. Tutto il paese è interessato dal conflitto, però al nord, lungo il confine con l’Arabia Saudita si concentra circa il 70% dei bombardamenti aerei, verso i quali la popolazione è del tutto inerme. Attualmente lavoriamo in 12 ospedali del paese e supportiamo altre 20 strutture e quindi abbiamo un’immagine molto realistica e preoccupante del paese”.
Il fatto che i media non ne parlino vi fa sentire abbandonati?
“C’è la sensazione di essere lasciati soli, sì. Nei nostri ospedali riusciamo a vedere tutto quello che concretamente facciamo. Ma al di fuori delle nostre strutture sanitario vediamo gli enormi bisogni che affliggono il paese: ci vorrebbe il coinvolgimento non solo di Medici senza frontiere, ma di tutte le altre organizzazioni che ne hanno la capacità, e senz’altro della comunità internazionale. Questo non è sempre facile, perché oggi lavorare nel paese è difficile non solo per la guerra, ma anche per le complicazioni burocratiche per le quali avere un visto è piuttosto complicato, e anche MSF, ha trovato molte difficoltà”.
La testimonianza di Roberto entra nel vivo, ne emerge uno spaccato tremendo.
“Cominciamo con qualche numero. Sono brutti, è vero, ma danno la chiara immagine di cosa accade. Dal 2015 al 2019 oltre un milione di pazienti sono passati dai pronto soccorso, ci sono stati 132mila feriti di guerra, 90mila interventi chirurgici e 127mila pazienti che abbiamo curato dal colera. Anche la nostra asl collasserebbe davanti a questi numeri. È uno sforzo enorme”.
Ma un medico, precisa il dottor Scaini, non si limita agli interventi di chirurgia.
“Uno dice, vado in un paese in guerra e faccio interventi chirurgici perché ci sono feriti.
Quando c’è un evento catastrofico, come ad esempio una guerra, intervieni sulle prime necessità: sale operatorie, feriti di guerra e patologie traumatiche. In Yemen questo è successo, ma abbiamo capito che con il protrarsi della guerra dovevamo affrontare un’altra arma. non solo le bombe e i colpi di kalashnikov, ma anche l’impoverimento progressivo e continuo del paese, che è già uno dei più poveri al mondo. Questo ci ha portato a prendere decisioni importanti.
“Nel 2016 andai a visitare l’ospedale di Haydan, bombardato nell’ottobre del 2015, per un intervento della sezione francese di MSF in Yemen. Torno con un report poco felice: l’ospedale, così com’era non sarebbe servito a nessuno. Alcuni mesi dopo ritorno e riapro l’ospedale di Haydan. Siamo a pochi chilometri dal confine, in piena linea del fronte saudita. Ci siamo subito accorti che i feriti dei bombardamenti (quotidiani) arrivavano tutti ben stabilizzati. Potevo semplicemente metterli in un’ambulanza e mandarli all’ospedale militare, dove avrebbero ricevuto delle cure gratuite perché erano dei combattenti, e non moriva nessuno. Al che ho detto al comitato di MSF: qui non serve una sala operatoria, ma una pediatria e una maternità. I fatti purtroppo mi diedero ragione: il primo decesso fu una donna che partorì nel suo villaggio, e arrivò da noi di notte. Morì di emorragia perché non funzionava il generatore, non funzionava la banca del sangue, né altro. E questo si ripeteva. Allo stesso modo vedevi i bambini che arrivavano con malattie relativamente semplici, come il morbillo o la polmonite, che puoi curare con semplici antibiotici e morivano perché arrivavano tardi. In 40 giorni, oltre al pronto soccorso, abbiamo aperto pediatria e maternità, costruiendoli tra le macerie di un ospedale che era stato bombardato”.
Lieto fine? Fino ad un certo punto.
“Le strutture mediche di MSF sono state colpite cinque volte dalla coalizione. Viene catalogato come errore, come danni collaterali della guerra. Ma è un’arma. In questi anni sono morti in 26, tra colleghi e pazienti morti a causa di attacchi aerei”.
Di fronte anche a questi pericoli, cosa ti ha spinto a diventare medico di MSF?
“Ti rispondo semplicemente che è quello che ho sempre voluto fare. Ho studiato per quello. Proprio a Riccione ho maturato questa idea e mi ritengo fortunato per aver raggiunto quello che desideravo. E sono contento di poter parlare alla città di quello che ho visto”.