ROF, il magnetico spettacolo di Graham Vick valorizza le ascendenze teatrali di un’opera fra le più importanti della storia del melodramma
PESARO, 17 agosto 2019 – Un paio di enormi occhi puntati verso il pubblico. Appartengono al volto di un uomo non più giovane (in seguito lo si vedrà con maggior chiarezza): quel padre assente in Semiramide, ma spesso anche nell’odierna quotidianità. Da subito, s’intuisce che la lettura registica di Graham Vick scaverà negli abissi psicologici della vicenda versificata da Gaetano Rossi a partire da Voltaire, senza rinunciare alla ricerca delle sue profonde ragioni teatrali.
L’opera testamentaria con cui Rossini si congedò dall’Italia nel 1823, dietro alla facciata delle sue proporzioni monumentali e alla statuaria perfezione musicale delle pagine, rappresenta una summa del suo mondo operistico e, allo stesso tempo, uno straordinario punto di convergenza teatrale: dalla tragedia classica a Shakespeare, dalla commedia borghese agli orizzonti della ricerca contemporanea. E la regia punta a suggerire la molteplicità di queste ascendenze: in Semiramide non si ritrovano solo gli echi dell’universo teatrale che ha preceduto Rossini, ma si leggono già i risvolti psicanalitici e, persino politici, che caratterizzano il presente. Una prerogativa che appartiene solo a poche pietre miliari: a quei capolavori che hanno segnato fondamentali punti di svolta.
A dimostrazione di come la Storia si avvalga di meccanismi destinati a riproporsi in modo simile anche oggi, il regista ipotizza per i sacerdoti e per Idreno vaghi contorni assiri, mentre configura gli altri personaggi della corte di Semiramide in modo del tutto contemporaneo (le scene, particolarmente efficaci, e i costumi sono di Stuart Nunn). Ogni particolare è curato con minuziosa attenzione, senza macchinosità, dato che tutto appare consequenziale e sempre plausibile, spesso con effetti spiazzanti ma che fanno riflettere: dai disegni infantili dipinti sul fondale all’orsacchiotto azzurro che aleggia – fino ad assumere dimensioni gigantesche e sempre più incombenti – per evocare la sparizione del piccolo Ninia: riferimento a quella infanzia negata così spesso anche ai nostri giorni. Tanti sono i dettagli che contribuiscono a dipanare il torbido rapporto che lega la regina assira al suo complice Assur o, ancor più, l’ambiguo legame fra lei e il guerriero Arsace – contralto en travesti che non si preoccupa di nascondere la propria femminilità – e che si risolverà nell’omicidio della sovrana in una sorta di Edipo rovesciato.
La nuova produzione del quarantesimo Rossini Opera Festival è dunque uno spettacolo di grande impatto visivo, che la lettura musicale di Michele Mariotti è riuscita ad assecondare con mano sicura. Alla guida dell’ottima Orchestra Sinfonica della Rai, il direttore pesarese si è trovato a suo agio con una musica di cui valorizza singolarmente ogni numero, riuscendo a rendere evidenti anche quei sotterranei legami che li connettono (inutile dire che la versione è rigorosamente integrale: al ROF, un obbligo). Ha saputo, inoltre, sostenere i cantanti, chiamati – in quest’opera più che in altri titoli rossiniani – a uno strenuo impegno vocale, curandone in maniera minuziosa una dizione che appare sempre perfetta.
Protagonista (capelli biondo platino, giacca e pantaloni da manager) il soprano georgiano Salome Jicia che – grazie a una un’emissione un po’ angolosa – delinea una protagonista volitiva e cinica, da autentica dominatrice dove solo a tratti si manifesta qualche fremito che sembra far traballare le sue certezze. Vincente su tutti i fronti è l’espressivo mezzosoprano armeno Varduhi Abrahamayan, che ha saputo imprimere una ricca gamma di sfumature ad Arsace, disegnando un personaggio di grande intensità emotiva. Il basso argentino Nahuel Di Pierro, alle prese con l’ambigua figura di Assur, ha puntato sulla resa scenica più che sull’articolazione del fraseggio e la solidità delle colorature, mentre il tenore Antonino Siragusa è riuscito ad affrontare le due impervie arie di Idreno – diversissime fra loro – con apprezzabile sicurezza. Nel piccolo ruolo della principessa Azema si è fatta apprezzare il mezzosoprano rumeno Martiniana Antoine e il basso Carlo Cigni è stato il sacerdote Oroe, sempre sonoro. Da lodare il contributo dei coristi del Teatro Ventidio Basso (preparati da Giovanni Farina) che hanno mostrato una solida preparazione vocale e una non facile disinvoltura sulla scena.
Come già altre volte è successo a Pesaro, giudizi discordanti fra il pubblico per lo spettacolo di Vick. In un’opera come questa, animata da una fortissima tensione morale, il regista inglese riesce a toccare nervi scoperti. Oggi, questi aspetti inevitabilmente dividono. Il monito appare comunque chiaro: l’assenza di padri genera orrori.
Giulia Vannoni