Al sabato sera – si era nella seconda metà degli anni Cinquanta del secolo scorso – via Leon Battista Alberti, accanto al Duomo, era animata da giovani che si affollavano vocianti davanti ad una porta, ritagliata nel muro del palazzo dell’antico Seminario vescovile. Era indicata (ed è indicata tuttora) dal numero 12 e si apriva allora su uno stanzone, diviso a sua volta in due box disadorni con vetrate, sulle quali campeggiavano targhe in metallo con i nomi di don Luigi Tiberti e di don Oreste Benzi. Entrambi ricevevano i giovani per confessioni e colloqui.
Don Oreste arrivava trafelato e affannato in bicicletta, spesso in ritardo. Entrava subito a parlare delle questioni che urgevano nell’anima di una generazione di giovani che si stava affacciando alla vita nel secondo dopoguerra, quando nell’aria si avvertiva l’arrivo di quello che sarà poi chiamato il boom economico: si affermava infatti un turismo di massa che offriva opportunità di lavoro e propiziava la nascita di piccole aziende e di nuovi mestieri. Molti i giovani che si affacciavano alla vita universitaria. Le campagne attorno alla città cominciavano a spopolarsi delle famiglie che vi erano risiedute a mezzadria per secoli (penso a quella dei miei antenati contadini che erano vissuti per lungo tempo a Spadarolo), rimpiazzate da altre provenienti dalle regioni vicine.
Straordinaria era la capacità di don Oreste di entrare subito in sintonia con il ragazzo che gli stava davanti: poche battute scherzose e la vita di ciascuno entrava a fiotti nella conversazione. Ci si affidava a lui come ad un amico conosciuto da sempre, con in più la fiduciosa certezza di ricevere consigli, orientamenti, conforto qualche volta: i conflitti intergenerazionali si facevano più frequenti nel passaggio ad una civiltà industriale e urbana, più libera e aperta a molteplici influenze e a stili di vita. Grande lettore delle Scritture (conosceva il Nuovo Testamento a memoria), don Oreste basava la sua azione di educatore presentando il Vangelo nella sua radicalità, parlando di un Gesù molto vicino agli uomini, anzi compagno di strada, al punto di porre a ciascuno una chiamata particolare. Insisteva molto su questo tema.
Ciascuno era chiamato ad una vocazione specifica nel mondo, a servizio del Regno, ispirato dalla fede intesa come partecipazione al modo di vedere di Gesù: era lui la fonte del discernimento della vocazione, della quale era necessario conoscere i contenuti fondamentali, le articolazioni specifiche, lo stile singolare. Una vocazione da vivere nel mondo: nel mondo della famiglia, del lavoro e della professioni, nell’impegno pubblico. Accanto al Vangelo, per chi soprattutto si avviava a studi universitari, don Oreste indicava la lettura di testi per l’approfondimento della realtà ecclesiale e sociale e per la migliore conoscenza del proprio mondo interiore.
Ho qui davanti a me, in una scansia della biblioteca, i libri che mi ha donato e quelli che ho acquistato secondo le sue indicazioni. Il primo è in francese (don Oreste conosceva perfettamente questa lingua e l’aveva insegnata a lungo): Cattolicesimo. Gli aspetti sociali del dogma. Era l’opera di un gesuita francese, padre Henri De Lubac. Nel libro sosteneva la tesi che il cattolicesimo è essenzialmente sociale. “Sociale – scriveva De Lubac – nel senso più profondo della parole: non soltanto per le sue applicazioni nel campo delle istituzioni naturali, ma prima di tutto in se stesso, nel suo centro più misterioso, nell’essenza della sua dinamica. Sociale a tal punto che avrebbe sempre dovuto apparire un pleonasmo l’espressione cattolicesimo sociale”.
Per inciso: De Lubac era in quegli anni accusato di semimodernismi per aver pubblicato Soprannaturale. Studi storici ed era stato allontanato dall’insegnamento nella Facoltà teologica di Lione. La riabilitazione verrà da Papa Giovanni XXIII che lo nominerà consultore della Commissione teologica preparatoria del Concilio Vaticano II e in seguito esperto al Concilio stesso. Giovanni Paolo II lo creerà cardinale nel 1983.
Più tardi don Oreste mi donò una copia di Umanesimo integrale di Jacques Maritain, raccomandandomi di leggerlo attentamente, riga per riga, note comprese.
Mi avrebbe chiesto, qualche mese più tardi, di esporne le tesi a un gruppo di amici del Centro diocesano dell’Azione Cattolica, nel quale ero appena entrato sollecitato da lui e da Ferdinando Rossi. Il libro di Maritain a quei tempi era guardato con ammirazione da alcuni e con sospetto da altri, perché proclamava la fine dell’epoca sacrale che imponeva un modo nuovo di pensare i rapporti tra cristianesimo e mondo. Non il dominio temporale da parte del religioso, ma piuttosto il servizio di questo a quello, affinché le realtà temporali conseguissero il loro fine generale, che non è quello ultimo e supremo; andava perciò mantenuta la distinzione, senza separarli, tra l’ordine teologico e quello del mondo. Maritain tracciava infine le linee di un impegno politico dei cristiani, in un mondo sempre più secolare, che doveva coniugare ispirazione cristiana e laicità. Ricordo la gioia di don Oreste quando seppe che Paolo VI, alla chiusura dei lavori del Concilio Vaticano II avrebbe consegnato proprio a Maritain il Messaggio agli uomini di pensiero e di scienza.
In una stagione di rapidi cambiamenti culturali emergeva in molti giovani il desiderio di conoscere meglio sé stessi, di dare forma alla propria identità. A questi don Oreste proponeva di leggere il Trattato del carattere di René Le Senne, il filosofo spiritualista francese che aveva dedicato anni della sua esistenza a individuare gli strumenti scientifici atti a studiare il carattere delle persone, a dispetto dell’opinione corrente che riteneva impossibile l’impresa, giacché il carattere era individuale e perciò ritenuto insondabile da questo genere di ricerche. Le Senne voleva sfuggire alle prospettive positivistiche che considerano il carattere in maniera deterministica e nello stesso tempo cercava di definirne le costanti generali e scientificamente incontestabili. Per questo lo analizzava secondo tre fondamentali dimensioni: la emotività, l’attività, la risonanza in esso degli eventi.
Accanto a questo testo, allora d’avanguardia, don Oreste consigliava la lettura del volume del premio Nobel della medicina Alexis Carrel. Ne L’uomo questo sconosciuto (pubblicato in Francia nel 1935 e in Italia nel 2006) il medico e filosofo francese presentava una immagine sintetica dell’uomo sulla base delle molte conoscenze scientifiche acquisite e la collocava nella società del tempo dominata da un diffuso individualismo e da un uso della ragione finalizzato alla creazione di un mondo artificiale, con effetti devastanti sulla salute pischica e fisica. Carrel, inoltre, indicava una prospettiva medica fondata non tanto sulla cura della malattia a sé stante, ma sull’uomo “intero”, come individuo e come essere sociale. Invitava a concepire una società diversa, capace di rispondere ai bisogni veri ed essenziali, senza crearne altri inutili e dannosi. Alle soglie dell’avvento della società dei consumi, che si sarebbe rivelata in tutti i suoi risvolti nel secondo dopoguerra, Carrel ne segnalava le possibili derive e invitava a creare contromovimenti culturali in grado di arginarle.
Sarebbe interessante prendere in esame dettagliato la biblioteca personale di don Oreste e fissare i titoli dei libri da lui letti. Mancano certamente molti di quei testi che donava generosamente alle persone incontrate. Ma è da ribadire che sotto il profilo culturale, don Oreste era tutt’altro che uno sprovveduto. I libri di cui sopra erano non solo di qualità, ma erano pressoché sconosciuti a Rimini. Per molti aspetti anticipavano il Concilio Vaticano II che divenne per don Oreste un punto di riferimento essenziale e del quale fu un instancabile realizzatore. Invitava a incontrare le tante persone che vivevano ai margini della società affluente, ricca di oggetti e di promesse, ma incapace spesso di farsi carico delle tante nuove povertà: dai tossicodipendenti alle prostitute, ai tanti sconfitti di una società competitiva che li inchiodava ai bordi della strada. Aveva ben compreso che la nuova stagione del mondo e della Chiesa esigeva, per operare nel solco del Vangelo, di pensare di più e di pensare, talvolta, diversamente e che i giovani, portatori di istanze generose, andavano coinvolti in prima persona. Molti di noi hanno trovato il senso e la direzione della propria esistenza in questi incontri intensi con don Oreste, al sabato sera, in via Leon Battista Alberti.
Piergiorgio Grassi