Festeggiato alla Sagra Malatestiana il quattrocentocinquantesimo anniversario dalla nascita di Claudio Monteverdi
RIMINI, 23 settembre 2017 – Una riflessione sull’amore. Declinato in tanti modi. Si comincia con due biondissimi bambini che prima si rincorrono davanti a una tenda-sipario e in seguito inscenano un ingenuo rituale di seduzione. Si finisce con una coppia di anziani che, dopo timidi approcci di corteggiamento, si denudano per dimostrare come di fonte alle emozioni siamo indifesi e – comunque – nudi, a prescindere da età ed esperienza. Nel mezzo si collocano due giovani danzatrici (le brave Annamaria Ajmone e Sara Leghissa) che si muovono in una foresta pluviale – basta qualche accenno di palme per delinearla – trasformata in campo di battaglia. Rivestite di variopinti piumaggi come due uccelli esotici, ingaggiano una suggestiva lotta che potrebbe essere amorosa oppure mirata solo ad avere la supremazia, o forse entrambe le cose insieme: un filmato con una tigre che attraversa la scena sembra alludere, del resto, a quella ferinità racchiusa anche nei sentimenti amorosi.
Dopo la bella prova offerta con Hyperion nel 2015, la compagnia romana Muta Imago – la regista Claudia Sorace e il drammaturgo Riccardo Fazi – è tornata alla Sagra Malatestiana per una nuova produzione: l’allestimento in forma scenica, al Teatro degli Atti, del Libro ottavo di Monteverdi (nel 2017 si festeggia il quattrocentocinquantenario dalla nascita del compositore), quello dedicato ai Canti guerrieri e amorosi e che comprende il celeberrimo Combattimento di Tancredi e Clorinda. Poi lo spettacolo approderà, nel week end, a RomaEuropa Festival. Ma se due anni fa con Maderna l’esperimento aveva funzionato piuttosto bene, questa volta le immagini, in sé anche suggestive, non hanno aggiunto molto ai versi dei madrigali intonati da Monteverdi: anzi, spesso la sensazione era di una certa genericità. Né giova voler ricondurre a una quotidianità contemporanea un capolavoro che nel 1638 s’inseriva, di fatto, nel percorso intrapreso dal neonato teatro d’opera: anzi, finisce con il banalizzare quelle innovazioni che, all’epoca, erano davvero rivoluzionarie. Neanche le riflessioni in chiave odierna sull’amore, che accompagnano ogni madrigale e sono riportate nel manifesto distribuito come programma di sala, aggiungono molto rispetto all’eternità dei versi di Petrarca e Tasso, finendo con l’esserne schiacciate.
La dialettica con gli esecutori, compromessa talvolta da fastidiosi – seppure inevitabili – rumori, era così ridotta al minimo. L’Ensemble Arte Musica, gruppo bolognese diretto da Francesco Cera, anche concertatore al cembalo, si avvale di strumentisti d’impeccabile professionalità (uno di loro, Francesco Romano, tiorba, è stato protagonista il giorno successivo, insieme allo stesso Cera, di un bellissimo concerto dedicato a Frescobaldi e Kapsberger). Precisi e puntuali pure i cantanti, anche se quelli con i ruoli solistici principali (da Alberto Allegrezza a Walter Testolin; da Lucia Franzina ad Andres Montilla-Acurero e Riccardo Pisani, rispettivamente Clorinda, Tancredi e il Testo nel Combattimento) sono apparsi fin troppo concentrati su intonazione e rigore metronomico, a svantaggio dell’espressività. Questa musica richiede infatti una certa dose di libertà, altrimenti il concetto di “madrigale rappresentativo” si svuota di significati, così come il famoso “stile concitato”, che Monteverdi coniò portandolo a livelli altissimi. Non basta dunque un’esecuzione corretta: bisogna assumersi la responsabilità d’interpretare.
Giulia Vannoni