Inaugurata la stagione dell’Opera di Roma con Mefistofele di Boito per la provocatoria regia di Simon Stone
ROMA, 2 dicembre 2023 – Si può perdonare qualche furore ideologico a un giovane di ventisei anni, animato da ideali estetici del tutto disallineati rispetto a quel melodramma che trionfava sui palcoscenici italiani. Con l’ambiziosa intenzione di rinnovare il teatro d’opera aggiornandolo alla lezione wagneriana, Arrigo Boito debuttava nel 1868 alla Scala con Mefistofele e, sulla scia del suo nume Richard, ne aveva scritto musica e libretto. Di quel fiasco però non resta testimonianza (la partitura è andata distrutta): l’‘opera in un prologo, quattro atti e un epilogo’ che ascoltiamo oggi è una seconda stesura realizzata per Bologna nel 1875.
Lavoro affascinante per il soggetto – affronta il mito di Faust immortalato da Goethe – e per una musica di grande spessore sinfonico, Mefistofele era un titolo di repertorio fino a qualche decennio fa, con numerosi allestimenti e incisioni discografiche affidate a grandi bacchette: oggi, invece, è diventato di rara esecuzione. Spetta dunque al Teatro dell’Opera di Roma il merito di aver azzardato una scelta coraggiosa, oltre tutto per inaugurare la stagione, affidandone l’allestimento al trentanovenne Simon Stone (mai approdato su un palcoscenico operistico italiano), ponendosi così controcorrente in tempi di omologazione pressoché generalizzata.
Di origine australiana, seppure europeo per formazione, questo talentatissimo e provocatorio regista – drammaturgo e uomo di teatro ad ampio spettro – ha colto con intelligenza la sfida implicita nell’opera di Boito: liquidare ogni religione e gettare alle ortiche i buoni sentimenti, a favore di un nichilismo sulfureo e non immune da risvolti ironico-grotteschi. Pur prendendosi molte libertà, lo spettacolo di Stone procede con mano felice e – dettaglio non trascurabile – rispetta grammatica e sintassi operistica, senza mai entrare in conflitto con la musica.
Quando la bianca scatola scenica di Mel Page (autore anche dei costumi) si apre sul Prologo in cielo, il contrasto tra il candido coro delle falangi celesti e l’aitante Mefistofele, che dal sottosuolo s’inerpica su una scala a chiocciola per affermare il suo disprezzo del genere umano, non potrebbe essere più icastico e, al tempo stesso, divertente. La scena della domenica di Pasqua è invece rappresentata da una sorta di paese dei balocchi – pericolosamente simile al consumistico e dismemore mondo di oggi – dove il protagonista si aggira vestito da clown, tanto rassicurante quanto demistificatorio. Alle pareti dell’algido ambulatorio di Faust sono appese radiografie di esseri umani e – ripercorrendo alcune tappe dell’ontogenesi – di animali che sembrano quasi ammiccare all’idolatria odierna verso di loro; l’amore tra Faust e Margherita si consuma in mezzo a palline colorate di quel perenne luna-park che è l’attuale società . La scena più potente, però, è la notte del sabba: il vero rito satanico non è il maiale sgozzato per cospargere con il suo sangue gli adepti di una setta, ma il sinistro esercizio del potere. Con un bel colpo di teatro si materializza, infatti, un pulpito da cui Mefistofele – con indosso un inequivocabile fez – soggioga la folla. Anche il cosiddetto sabba classico del quarto atto non è meno potente. Per cancellare ogni retorica legata a un’arcadica visione della classicità, il racconto di Elena di Troia è contrappuntato da donne e uomini che cadono per i colpi di mitra. Niente, dunque, è cambiato nel tempo e Faust si rende conto – considerazione persino doverosa per un medico come lui – che l’unico scopo dell’esistenza è quello di aiutare gli altri. L’Epilogo è pertanto ambientato in un ospizio, dove i degenti vengono accuditi amorevolmente dal personale infermieristico. Anche Faust, tornato di nuovo anziano, morirà riconciliato con il mondo, mentre lo sconfitto Mefistofele si dilegua.
Il regista ha fatto pure un accurato lavoro sui cantanti, trasformati in attori in grado di trasmettere l’articolata concettualità dello spettacolo. A partire dal protagonista, lo straordinario John Relyea, che si è imposto per presenza scenica, solidità dell’emissione, granitica timbratura anche negli affondi più gravi. Molto brava Maria Agresta che qui, come nelle intenzioni di Boito, interpreta il doppio ruolo di Margherita ed Elena – ossia le due polarità femminili con cui si confronta Faust – con voce sempre morbida, ma cangiante di volta in volta. Attore assai credibile, Joshua Guerrero non è apparso tuttavia a suo agio – intonazione e stabilità del suono hanno avuto qualche cedimento – con la vocalità di Faust. Corretta Sofia Koberidze, impegnata anche lei nel duplice ruolo di Marta e Pantalis, mentre Marco Miglietta si è confermato ottimo tenore caratterista nei panni dell’allievo di Faust.
Chi invece ha scelto di non rischiare è stato il direttore Michele Mariotti, che peraltro ha fatto suonare molto bene l’orchestra del Teatro, ottenendo anche suggestivi effetti di lontananza grazie alla collocazione degli ottoni sotto la platea, anziché in buca. Tuttavia, la tensione trascinante di molti passaggi, l’incalzare ritmico che soprattutto un interprete come Relyea avrebbe potuto sostenere, le sfumature irriverenti e ironiche di cui è contrappuntato il libretto insieme alla verve parodistica e dissacratoria della partitura sono apparse troppo stemperate: in favore di un’attenzione al suono che rappresenta solo una delle tante componenti della rivoluzionaria opera di Boito.
Giulia Vannoni