Uno stile immediato, passionale, caldo e provocatore. Ezio Aceti, psicologo dell’età evolutiva, è intervenuto al convegno diocesano dei catechisti domenica 27 gennaio in Sala Manzoni, a Rimini. A tema: “L’esperienza religiosa del bambino e dell’adolescente”.
Dottor Aceti, cosa significa educare oggi?
“Prima di tutto significa conoscere i bambini e i ragazzi, perché non li conosciamo affatto. In buonafede si fanno molti errori, tra cui quello di dare per scontato l’amore per i bambini. Ma non è così: l’amore è personale, rivolto verso un essere che per noi è speciale. Anche la scuola è indietro di cinquant’anni. Noi non sappiamo niente dei bambini! È importante diffondere una cultura sull’infanzia e a questo proposito ho tre sogni: i neogenitori dovrebbero essere obbligati a frequentare almeno tre incontri che facciano loro capire cos’è un bambino. Così pure gli insegnanti e i seminaristi che si preparano a diventare preti (tre esami: uno sui bambini, uno sugli adolescenti, uno sulla relazione)”.
E cos’è un bambino?
“Maria Montessori ne ha dato una definizione splendida, secondo cui un bambino non è un piccolo adulto, ma un essere completo che funziona diversamente. Questo approccio elimina due importanti pregiudizi: intanto non esistono caratteri belli e caratteri brutti. Tutti abbiamo il nostro carattere, di cui dobbiamo imparare a diventare padroni. Poi, all’interno di una relazione, anche educativa, non c’è chi ha ragione e chi ha torto; esistono due visioni che si confrontano”.
I ragazzi e i bambini non si sentono ascoltati dai genitori.
“Come adulti oggi dovremmo fare come farebbe Gesù. Lui è venuto perché attratto dalle fragilità dell’uomo, dalle nostre fragilità. Se i genitori non ascoltano i propri figli è perché sono «mangiati» dalle tante cose da fare. La Chiesa dovrebbe rispondere a questo bisogno organizzando, nelle parrocchie, corsi per genitori, aiutandoli a capire la bellezza dello sviluppo del bambino. La colpa può essere oggettivamente loro ma, soggettivamente, sono proprio i genitori, i primi, ad aver bisogno. Sono due le grandi operazioni che la Chiesa deve condurre: riportare la famiglia al centro, abituando i genitori a parlare dei figli, dell’educare. Ai ragazzi, invece, deve porgere quelle verità che oggi il mondo non offre più, aiutandoli a diventare persone libere, padroni delle emozioni e degli istinti, senza farli sentire in colpa per ciò che provano”.
Nel suo intervento ha accennato a cinque “cromosomi” che Dio avrebbe posto in noi…
“Il primo è: noi siamo relazione. È l’altro che mi fa esistere. Mai mettere nel cuore di un bambino la paura dell’altro. Se mettiamo la paura nel bambino ne uccidiamo l’anima.
Il secondo: noi siamo programmati per l’amore. Dove non c’è amore metti amore e troverai amore. Siamo fatti per quello.
Il terzo è: il vero genera gioia e il falso tristezza.
Il quarto: è sempre possibile ricominciare. Mai dire: «Sei sempre il solito».
L’ultimo è quello che chiamo il terzo orecchio: la capacità di imparare, assorbire ciò che ci circonda”.
Quale errore è particolarmente comune tra genitori ed educatori?
“La mancanza di positività. Smettiamo di descrivere il negativo. Le nuvole nella vita ci sono certamente, ma tu mettici il sole. Racconta la luce. È una vita che nasce! L’80% delle volte i genitori si rivolgono al figlio per ammonirlo, quasi mai per lodarlo. Occorre invece avere una visione positiva”.
Come parlare con loro in concreto?
“Il linguaggio dovrebbe essere quello trinitario. Noi possiamo parlare della Trinità solo perché è Dio che si adegua a noi e alle nostre categorie. Si adegua come una mamma fa con il suo piccolo: così dobbiamo fare noi. Il linguaggio trinitario è il linguaggio dell’amore. L’amore contiene la grandezza del Padre, del Figlio e dello Spirito. Tutte le volte che noi parliamo con un ragazzo, dobbiamo usare il linguaggio trinitario, che contiene i tre concetti dell’amore: il primo è l’empatia. Prima di parlare, cerchiamo di accogliere: se ha fatto qualcosa di sbagliato, diciamolo, ma prima comunichiamogli quello che proviamo: «Mi spiace che tu abbia fatto quella cosa». La seconda parte è la verità, la regola: «Dovevi fare in questo modo». Ma la terza parte è lo Spirito, il sostegno, la luce: «Sono sicuro che la prossima volta farai meglio». Sapete che cosa penserà il bambino? Capirà di aver sbagliato ma che può migliorare, avendo stima di noi, perché non lo abbiamo umiliato o ferito. Dobbiamo insegnare non il Dio che punisce, ma il Dio onniamante”.
Se dovesse dare una definizione di educatore?
“Mi piace paragonarlo a un pellicano. Nell’educare è fondamentale porgere la realtà gradualmente. Pensi a come si comporta il pellicano per nutrire i piccoli: vede i pesci, li cattura, li mastica e solo dopo li porge ai piccoli, in una forma che loro possono assorbire. L’educatore deve comportarsi allo stesso modo con i bambini e i ragazzi”.
Quale ruolo per i catechisti?
“I catechisti devono soprattutto avere un rapporto personale con Gesù. È impossibile che non sia così. Non importa che siamo bravi o meno, ma che ci sia questo rapporto. Noi abbiamo confuso la catechesi con la dottrina. La catechesi è aprire la porta e far incontrare Gesù con i bambini. La catechesi prevede che un educatore sia talmente legato a Gesù che non possa non trasferire questa luce, pescando dal suo rapporto personale con Gesù e costruendo con l’altro la stessa relazione che Gesù aveva con la gente. Gesù veniva accusato di sporcarsi le mani con tutti: un catechista, dunque, è uno che si sporca le mani con tutti i propri ragazzi, perché innamorato di Gesù e come tale dà la luce che promana da questa relazione così intensa”.
Uno degli aspetti della contemporaneità che più preoccupa i genitori è l’accesso dei figli ai social network. I divieti servono a qualcosa?
“Condivido quanto detto da Umberto Galimberti: i mezzi di comunicazione di massa non sono né belli né brutti, ma sono rapidi. E noi siamo una generazione pretecnologica, non abbiamo una cultura dell’uso dei media perché non abbiamo una cultura dell’infanzia. Il problema non sono gli strumenti. Come consideriamo il bambino e il giovane lo si vede bene nella scuola, dove le pagelle vengono consegnate ai genitori, mentre sono convinto che il bambino dovrebbe essere presente. Questo atteggiamento è tipicamente femminile. Sa cosa le dico? Il fatto che l’educazione in Italia (a scuola come in chiesa) sia quasi interamente gestita da donne è un dramma. E a questo proposito lancio una provocazione: nelle scuole bisognerebbe introdurre le ‘quote azzurre’! Almeno il 20-30% dei maestri dovrebbe essere di sesso maschile”.
Una parola per concludere
“Quando ti senti in difficoltà ascolta la voce di Dio che ti dice rialzati, riprendi. Noi non siamo solo lo sbaglio che abbiamo fatto, ma anche quello che vogliamo diventare. Educhiamo più con i nostri limiti, le nostre fragilità, che non con tutte le cose belle che sappiamo”.