In città e nelle campagne la situazione precipita. Il 12 luglio ’66 il Consiglio Generale di Rimini delibera una sovvenzione per i “poveri Coloni” del Bargellato, con mille rubbj di formentone da assegnare soltanto “con idonea sigurtà [garanzia] de’ rispettivi padroni”, come leggiamo negli atti comunali.
(La divisione tra Città, Contado e Bargellato è di origine medievale.
Tutt’assieme i tre territori formano “il Distretto di Rimini” che si divide in 28 Ville del Bargellato e 25 Castelli del Contado.) La licenza di prendere in prestito diecimila scudi relativi a questa prima distribuzione di formentone, è concessa dal Legato il 28 agosto, e dalla romana Congregazione del Buon Governo il 27 settembre (ma a dicembre Rimini potrà ottenere soltanto la metà di quei diecimila scudi: trovare denaro è poi difficile, ce n’è una comune necessità che fa salire le richieste ed aumentare il tasso dell’“usura”).
La gente del Contado viene dimenticata Il provvedimento del 12 luglio provoca malcontento tra i “Possidenti nelle Castella” che, in un memoriale inviato in novembre al Legato di Romagna, invocano un’analoga deliberazione per i “poveri Coloni del Contado” che gemono “sotto il gravissimo peso di tanta calamità, e languiscono smunti affatto senza verun soccorso nell’estrema di loro indigenza”: “Dalla vendemmia a questa parte si nutriscono a similitudine delli Animali”. Quei “Possidenti” accusano Priori e Comunisti (cioè capi ed amministratori) delle rispettive Comunità: “Non sperimentando la fame hanno posto in oblio i poveri Coloni, ed altri miserabili Abitanti del Contado stesso senza prendersi verun pensiero dell’indigenza loro”.
“Moltissimi Possidenti ricchi della Città” propongono al Legato una soluzione per risparmiare e trovar denaro necessario agli aiuti invocati. È una di quelle idee che vengono soltanto a chi ha la pancia piena e non incontra problemi nel rimediare il cibo per la propria tavola: essi suggeriscono di calare il peso del pane, mantenendone inalterato il costo. Con un bajocco, da ottobre si ha pane “di una sola qualità”, cioè di tutta farina (detto bianco od affiorato) di sei once (tre in meno rispetto al ’65). Non si produce a parità di costo il tradizionale pan bruno o venale, più pesante (nel ’65, era pari ad 11 once).
Gli Abbondanzieri (responsabili dell’Annona frumentaria), il 25 novembre ’66 rifiutano questa proposta, nonostante l’aumento del costo della farina: calare l’oncia del Pane poteva far prevedere una “qualche comozione nel Popolo”. Per ogni stajo di grano, l’Annona ci rimette due scudi abbondanti.
Allo scopo di portare in parità il bilancio tra costi e ricavi, “sarebbesi dovuto tanto notabilmente diminuirne il peso, che avrebbe eccitato tumulto” tra la gente. Il Legato l’11 novembre concorda: il peso, fatto corrispondente al costo, sarebbe “risultato di tanta scarsezza, che senza dubbio avrebbe eccitato nel Popolo un tumulto universale”.
Il 29 novembre il Consiglio Generale, dopo aver letto la relazione degli Abbondanzieri del giorno 25 e dopo aver esaminato il memoriale dei “Possidenti nelle Castella”, decide una seconda sovvenzione di formentone, “alli Coloni” sia del Bargellato sia del Contado: su 47 voti, uno solo è contrario per il Contado, mentre si registra unanimità per il Bargellato. Il 27 dicembre il Legato dà licenza ufficiale all’Annona per queste provviste, dopo aver avvertito il 12: “La distribuzione de’ generi sia fatta con tutta l’equità, e in proporzione del bisogno de’ suddetti Coloni, e colla dovuta giustizia rispetto al pagamento” (il 1° ottobre il Legato aveva concesso la possibilità di creare debiti per l’Annona, ed il 31 dello stesso mese aveva approvato la “perdita sullo spaccio a vantaggio de’ Poveri”).
Il ruolo decisivo del clero
L’8 gennaio 1767 gli Abbondanzieri chiedono allo stesso Vescovo, conte Francesco Castellini, ed al clero “un congruo sussidio di Generi da somministrarsi in prestanza senza sigurtà” ai Casarecci, “con eventualità ancora
nel ritirarne il prezzo, affinché non si dovesse sentire il disordine, che fosse parte del Popolo perita di fame per diffetto di provvidenza”. La Congregazione del clero, il 22 gennaio, stabilisce che il riparto per questo “sussidio caritativo” vada distribuito “sopra ogni sorta di possidenti”, come se si trattasse di una normale imposta della Reverenda Camera Apostolica. Il 23 gennaio il “piccolo Consiglio” della Congregazione dei Signori Dodici esamina le “continue suppliche de’ Parochi, e l’istanze personalmente fatte da medesimi Casarecci della Campagna ridotti presso al morire di fame, per un qualche provvedimento”.
Una di tali suppliche è quella inviata da tre Parroci del Vicariato di San Vito allo stesso Legato: sono Carlantonio Pecci di San Martino in Riparotta, Francesco Bartolini di Santa Giustina ed Antonio Fabbrini, delle Celle. Essi rappresentano (precisa il Legato al Governatore di Rimini il 16 gennaio), “lo stato deplorabile, in cui si ritrovano alcuni loro Parrocchiani, che stanno a casa [a] pigione, e che non possiedono nulla, [i] quali si trovano in una necessità veramente estrema, poiché consumato il tutto, né essendovi modo da provvedersi altro modo onde vivere”. “La terra coperta di neve sin dal principio dell’Anno, non somministra loro neppure quelle poche erbe, delle quali si sono libati pel passato, così a medesimi poveri”, scrive il Legato, “convien perir di fame”. Il Governatore di Rimini risponde al Legato: “Le rappresentate miserie sussistono purtroppo, e sono accompagnate dalle due rilevantissime circostanze come sono quelle di essere generali in tutto questo Territorio, e di venire accompagnate sin d’ora dal lagrimevole effetto della morte a cui in alcune parti del Territorio medesimo hanno dovuto alcuni soccombere”.
L’impegno in prima persona di mons. Garampi Da un’altra missiva del Governatore di Rimini al concittadino mons. Giuseppe Garampi che vive a Roma, apprendiamo che si trovano in “deplorabile stato” i “Casarecci del Bargellato”, i quali “nulla posseggono”, e tanti poveri della stessa Città di Rimini “che non potendo impiegare le opere sue languiscono colle di loro Famiglie per queste contrade, e chiedono pietà, e soccorso alli di loro Concittadini privi anch’essi della maniera di apprestarglielo”.
Garampi (che ha ricevuto da Rimini un particolare “mandato di procura” il 31 agosto ’65, e che in Vaticano ha già raggiunto una prestigiosa posizione, confermata dalla nomina nel settembre ’66 alla “luminosa carica di Segretario della Cifra”, cioè dell’ufficio diplomatico), deve combattere “i ritardi, le eccezioni, e le difficoltà” della burocrazia romana, e cercare le strade più praticabili per ottenere qualche risultato. Il Governatore domanda a Garampi di intervenire presso il Papa affinché i Luoghi Pii di Città, Bargellato e Contado siano obbligati “a somministrare prontamente tutto il denaro che [h]anno” alla Municipalità: “Findove sonosi estese le nostre forze non abbiamo sin’ora mancato di giungere colli nostri provvedimenti. Incombe ora a’ Luoghi Pii il fare il partito loro a norma de’ Sagri Canoni”.
(2 continua)
Antonio Montanari