Papa Francesco ci sta abituando ad un duplice linguaggio, quello delle parole, semplici e immediate e quello dei gesti, forti e imprevisti. Di qualche giorno fa è l’annuncio della sua visita a Sarajevo, città martire, luogo di un conflitto atroce, fratricida, che aveva l’obiettivo di cancellare la Bosnia multietnica e multireligiosa; qui per secoli hanno vissuto assieme le grandi religioni del mondo: cattolici, ortodossi, musulmani, ebrei, gli uni accanto agli altri. In questa Sarajevo, ancora oggi mutilata da una tremenda e perdurante crisi economica e da tensioni mai completamente risolte, Papa Francesco porterà un messaggio di dialogo e di perdono fra le persone e le religioni. A Sarajevo c’è il ponte di Vrbania, sul fiume Miljacka. Oggi quel ponte si chiama Diliberovic – Sucic dai nomi di una studentessa bosniaca e di una pacifista croata uccise su quel ponte. Come il volontario italiano Gabriele Moreno, e tanti altri. Come Amira Ismic e Rosko Brckic, che sono stati anche chiamati Romeo e Giulietta di Sarajevo. Lei bosniaca musulmana, lui serbo ortodosso. Un cecchino ha fermato la loro vita su quel ponte mentre si preparavano a lasciare la città per costruire assieme una vita senza odio e violenza.
Il secondo annuncio di questi giorni è quello della beatificazione del vescovo salvadoregno Oscar Romero, riconosciuto da papa Francesco, con un Decreto del 3 febbraio, martire in odium fidei, assassinato mentre celebrava l’Eucaristia. Diceva Romero: “La Chiesa non può restare zitta davanti a tanta miseria perché tradirebbe il Vangelo, sarebbe complice di coloro che qui calpestano i diritti umani”. È la gente, il popolo, il primo destinatario della liberazione del Vangelo: “Cristo vuole un popolo cristiano libero da qualsiasi oppressione e ingiustizia”. Non può sfuggire la piena sintonia con i concetti che papa Francesco esprime nell’Evangelii Gaudium e ribadisce in tanti suoi interventi: “Ogni cristiano e ogni comunità sono chiamati ad essere strumenti di Dio per la liberazione e la promozione dei poveri… questo presuppone che siamo docili e attenti ad ascoltare il grido dei poveri” (EG 187).
L’ultimo gesto su cui vorrei porre l’attenzione, ma lo spazio mi è tiranno, è la sosta improvvisa di domenica 8 febbraio in un campo di zingari rom. Mi ha fatto riflettere come, in realtà, non si affronti mai con serietà e profondità il problema di queste minoranze. Contrapposizioni ideologiche e appelli morali si sono susseguiti, ma senza la reale costruzione di un progetto. Non si tratta solo di educarsi alla tolleranza, ma di affrontare la problematica zingara in maniera propositiva e utile ad una vera integrazione.
Giovanni Tonelli