Nel bel mezzo del Festival di Sanremo; nei momenti in cui si disputavano gli ottavi di Champions League; nei giorni più freddi dell’anno in riviera, Rimini è riuscita a ritagliarsi uno spazio di accurata ed approfondita riflessione su uno dei temi maggiormente dibattuti nel nostro territorio, cioè quello relativo alla criminalità organizzata. E lo ha fatto conoscendo una bellissima figura che è un mix di speranza, coraggio, capacità e fede: Mons. Giancarlo Bregantini, Arcivescovo di Campobasso e Presidente della Commissione per i problemi sociali della CEI; da anni combatte contro la cultura mafiosa nei territori nei quali presta il suo servizio ecclesiastico. L’occasione per incontrarlo, e sentire la sua bella testimonianza, è stato un incontro organizzato dall’Associazione Papa Giovanni XXIII (in collaborazione con Scatechismo e con la Provincia ed il Comune di Rimini) nella “Sala del giudizio”, all’interno del Museo della città. La risposta dei riminesi è stata positiva tant’è che molte persone sono state costrette a seguire il dibattito, moderato dalla giornalista Simona Mulazzani, in piedi. Il nome dato all’evento è significativo “Non possiamo tacere. Le parole e la bellezza per vincere la mafia”; altro non è che il titolo del libro (Ed. Piemme) presentato proprio durante la serata da Bregantini, scritto a quattro mani con la giornalista Chiara Santomiero.
Eccellenza, il suo libro si apre raccontando un episodio che si svolge all’interno del carcere di Crotone. Ce lo racconti.
“All’epoca ero un giovane prete che prestava servizio come cappellano in quel carcere. Un giorno stavamo guardando il film I cento passi e nel momento in cui viene ucciso il Generale Dalla Chiesa, i detenuti si sono alzati in piedi esultando ed applaudendo per quell’omicidio. Per me si è trattato di uno shock immenso. Questo dimostra come la mafia rovesci i valori che riteniamo giusti e che vorremmo presentare come esempi positivi da seguire. Nel caso specifico che ho raccontato una sconfitta appariva come una vittoria”.
Tutto questo cosa dimostra?
“Non basta conoscere la mafia, è importante capirne i meccanismi. Per contrastarla bisogna avere le idee chiare su come impostare e organizzare le forze positive che già sono dentro ognuno di noi e dalle quali si deve partire. Dobbiamo comprendere come porci di fronte al male. L’ottica con cui affrontarlo è fondamentale. Partiamo da un presupposto: tutto quanto di bello facciamo è un modo per opporsi alla criminalità organizzata”.
Nel corso della sua vita spicca, tra gli altri, il concetto di “obbedienza”, in particolare al volere di Dio. Tutto questo come ha influito sulla sua vita?
“Quando ricevetti la lettera nella quale mi veniva conferito l’incarico di Vescovo di Locri, all’inizio avevo dei timori. Io sono originario del Trentino ed essere catapultato in realtà così diverse non mi entusiasmava. Chiesi consiglio ad un Vescovo pugliese che affermò: ’Obbedisci, è il Papa che te lo chiede. A lui non puoi dire di no’. Il messaggio è uno: se obbedisci hai la strada in salita, ma Dio è al tuo fianco; se, invece, rifiuti percorrerai una strada più comoda ma da solo. Anche quando sono stato trasferito a Campobasso ho obbedito”.
Come è riuscito a farsi accettare nella comunità calabrese?
“Il giorno del mio insediamento fecero trovare una finta bomba posizionata sotto il palco delle autorità. Il capo della sicurezza della Polizia mi voleva imporre la scorta. Ero costretto a fare una scelta: la rifiutai. Il Vescovo che mi aveva preceduto era scortato perché gli avevano sparato nell’episcopio. Io non l’ho voluta dato che amavo quella gente e questo mi ha permesso di relazionarmi con loro con grande dignità. Non bisogna farsi svuotare dalla mafia”.
Altri due episodi sono curiosi, e portano con loro dei messaggi importanti che lei spesso vuole trasmettere. Di cosa si tratta?
“Il primo ha avuto luogo all’interno di una carrozza su un treno. Io ed un mio amico ci stavamo recando in Calabria ed all’interno dello scompartimento era presente proprio una famiglia calabrese. Ad un certo punto hanno iniziato a tirare fuori cibo e tovaglie per pranzare. Noi avevamo una fame incredibile ma non abbiamo chiesto nulla. La madre, prima di servire il cibo a suo figlio, l’ha offerto a noi esclamando: ’Favorite’. È la prima parola tipica del Sud Italia che ho imparato. Quel termine, che è un grande invito alla condivisione, non l’avevo mai sentito ma ora lo utilizzo anche nell’eucarestia, ed è anche riportato sul tabernacolo della chiesa nel quale celebravo messa. Il secondo episodio risale al luglio del 1968. Con una ventina di ragazze ci trovavamo in Sicilia per sistemare una piccola piazza di una chiesa. Mentre stavamo percorrendo a piedi la strada verso Taormina ci siamo imbattuti in un frutto che non avevamo mai visto prima. Era pieno di spine ma pensavamo che togliendo anche solo le più grosse di esse, fosse facilmente mangiabile. Invece fu un autentico tormento. Passò di lì un ragazzo del posto che, ridendo a crepapelle, ci spiegò come sbucciare il fico d’India. Ecco, il Sud è come questo frutto: se non lo sai prendere è spinoso, perché è diverso dal Nord. Ma è così ovunque. Infatti bisogna sapersi relazionare nella giusta maniera anche, ad esempio, con il collega ed il vicino di casa. I problemi a Rimini, Roma o Trento sono gli stessi, cambia il modo di approcciarsi”.
Cambiamento, lamponi e mafia. Cos’hanno in comune queste tre parole?
“Dopo un paio di anni nella Locride avevo capito che era necessario fare uscire i giovani dalle case e dalle realtà nelle quali vivevano. Provai a concentrarmi su due paesi difficilissimi come San Luca e Platì, invitando alcuni giovani contadini a fare uno stage in Trentino per affinare le loro tecniche nel mestiere che praticavano. Dopo lo sconforto iniziale dovuto al fatto di aver visitato grandi cooperative molto efficienti, gli ultimi due giorni li trascorsero in una delle valli che in passato era tra le più povere dell’intera regione. Ma divenne presto un territorio ricco perché si scoprì che il particolare microclima che la caratterizzava favoriva la crescita dei lamponi. Quell’esperienza motivò i ragazzi calabresi. Uno di loro, tornando, mi disse: ’Dunque si può cambiare’. Scoprimmo che in Calabria a dicembre c’è una temperatura adatta per coltivare lamponi. A Ferragosto li piantammo e a dicembre raccogliemmo i primi frutti. Cosa miracolosa: i raccolti ogni anno erano due, uno anche a maggio! Dopo due anni di ottimi risultati sul territorio la mafia si è presa la sua vendetta. Nel marzo del 2006 dentro la vasca di alimentazione ha inserito un terribile diserbante che ha ucciso l’enormità di diecimila piantine”.
Un progetto di anni mandato all’aria. Come ha reagito?
“Ero indiavolato e optai per la più grande forma di punizione che la Chiesa possa infliggere: scomunicai i mafiosi”.
La scomunica colpì “Coloro che fanno abortire la vita dei nostri giovani, uccidendo e sparando, e delle nostre terre, avvelenando i nostri campi”. Quali furono le reazioni?
“Dal carcere mi arrivarono lettere durissime. ’Lei è senza cuore’ si poteva leggere. Con la scomunica i mafiosi si sono sentiti maledetti da Dio, che considerano una presenza costante al loro fianco. A dimostrarlo i numerosi quadri di Santi e le statuette che si trovano nei bunker dove vivono”.
Poi il trasferimento a Campobasso. Il suo impegno come cambiò?
“Nel Vangelo, oltre a quella del pastore, emerge anche quella della sentinella. Penso che quest’ultima vada presa come esempio nella nostra vita quotidiana. La sentinella fa tre cose: deve vegliare (e per farlo deve avere un cuore libero, non appesantito), svegliare con voce chiara e convincente (riferito alla comunità nella quale vive) ed intravedere (nel senso si saper leggere nella notte). Non sono le cose che facciamo che ci distinguono, ma è lo stile a fare la differenza. Dobbiamo tutti vigilare senza paura”.
Matteo Petrucci