Due più due non fa sempre quattro. Filippo, Rosa e Marco a parità di risorse cognitive sanno fare cose diverse. La presa in carico di un bambino con sindrome di Down deve partire da qui, dalla singola persona perché ognuna ha uno sviluppo differente dall’altra.
Il convegno, organizzato da Crescere Insieme in collaborazione con l’Ausl, che ha coinvolto diversi operatori dell’ospedale Pediatrico “Bambino Gesù” di Roma, si è concentrato sul percorso riabilitativo e lo sviluppo delle abilità scolastiche (lettura, scrittura e calcolo) nei bambini con Trisomia 21. Un percorso riabilitativo finalizzato non solo all’acquisizione delle competenze in se stesse, ma alla realizzazione del “progetto di vita” (Legge 328/2000) e alla felicità della persona, percorso al quale tutti gli attori coinvolti devono lavorare in maniera integrata. Il prof. Stefano Vicari, responsabile dell’U.O. di Neuropsichiatria Infantile del “Bambino Gesù”, ha evidenziato come la difficoltà di apprendimento delle persone con sindrome di Down emerga progressivamente nello sviluppo, e come ciò richieda quindi la differenziazione e individualizzazione degli interventi.
“Il ritardo mentale – afferma Vicari – ha profili molto diversi, quindi anche la fase del trattamento – che deve essere limitato nel tempo – sarà diversa. È necessario pensare alla vocazione della persona e partire da ciò che bambini e ragazzi amano fare, dalle loro competenze, evidenziando non solo i limiti, ma anche i punti di forza. L’intervento cambia in base all’età. La fase dei primi anni di vita deve concentrarsi sul sostegno ai genitori e alla famiglia per sviluppare la consapevolezza della situazione. È importante parlare ai bambini, sviluppando il linguaggio costituito di parole e di gesti. Dai 3 ai 5 anni l’intervento si concentra sul bambino, ponendo attenzione all’apprendimento”.
Le tombole uditive, i giochi visivi e sonori costituiscono ottimi strumenti per lavorare con il bambino nei primi anni di vita. Giochi nei quali può provarsi e sperimentare.
“Fondamentale è ampliare il numero di parole conosciute, per esempio attraverso l’uso di immagini colorate e oggetti che limitano l’utilizzo della memoria di lavoro (working memory, utilizzata da ognuno di noi per costruire frasi elaborate) che nei bambini con sindrome di Down è particolarmente deficitaria”.
La presa in carico della persona deve essere interdisciplinare e coinvolgere le competenze del neuropsichiatra, del logopedista e del fisioterapista per un approccio integrato. Fondamentale poi è il ruolo della scuola che non deve emarginare la persona con disabilità.
Durante il convegno è stato preso in esame lo sviluppo delle abilità accademiche cioè lettura, scrittura e calcolo. A cosa serve saper leggere, scrivere e contare se poi queste competenze non hanno una ripercussione concreta sull’autonomia e l’inserimento sociale?
“Sono aspetti – sottolinea la dott.ssa Deny Menghini – che rivestono un ruolo fondamentale nell’adattamento e nella gestione della propria autonomia”.
“Ciò che conta – riprende Vicari – non è che cosa impara il ragazzo, ma che cosa ci fa con quello che impara. Lo scopo della lettura non è leggere, ma capire ciò che si legge. Così come copiare non è scrivere. Meglio giocare a pallone”.
“Quello che conta è il risultato” sottolinea il dott. Luigi Marotta. “A parità di quoziente intellettivo, non tutte le persone sanno fare le stesse cose e proprio per questo il QI come indicatore delle potenzialità e capacità di una persona è inadeguato e superato. Bisogna quindi individualizzare sempre l’intervento abilitativo”.
Marotta ha evidenziato come, nella vita quotidiana, molte azioni fanno riferimento al numero e al calcolo, come l’uso del telefono, della radio, del denaro e del pc. Dai pochi studi presenti in materia emerge sempre la difficoltà delle persone con sindrome di Down nella codifica semantica del numero cioè nel capirne l’effettivo valore. L’astrazione risulta un processo particolarmente difficile. I percorsi scolastici possono essere agevolati e più efficaci lavorando sulla semplificazione e sulla concretezza associando, per esempio, la quantità reale a un codice, come il colore.
“Dobbiamo smettere di pensare alle persone con sindrome di Down come persone malate – ribadisce Marotta – i nostri ragazzi devono lavorare, avere una casa, vivere con la persona che amano: questo è il mondo che sogniamo e che hanno diritto a vivere per raggiungere la felicità”.
L’esperienza ci fa comprendere che questo mondo è possibile, anche se purtroppo non per tutti.
“Io sono madre di una ragazza con sindrome di Down che oggi ha 16 anni – interviene una signora – vi dico che non dobbiamo scoraggiarci. Mia figlia ha imparato a leggere e scrivere in IV elementare. Ora frequenta le scuole superiori, studia, capisce quello che studia, sa risolvere i problemi e mi racconta delle gite che fa con i compagni di classe. Inoltre, grazie anche al supporto di un’educatrice domiciliare, ha imparato l’uso dei soldi ed è capace di fare la spesa. Prende il tram e va a scuola da sola, esce con la sorella maggiore a fare gli aperitivi. Certo abbiamo lavorato e lavoriamo ancora molto per questo”.
Letizia Rossi