Al Teatro Alighieri di Ravenna Le nozze di Figaro, riproposte nel bell’allestimento di Giorgio Ferrara nato per il Festival di Spoleto
RAVENNA, 23 febbraio 2019 – Per quella forma di rispetto che si deve ai capolavori, il regista Giorgio Ferrara si è accostato a Le nozze di Figaro mantenendosi fedele al periodo storico che fa da sfondo all’opera di Mozart. Un prezioso contributo gli arriva dalle scene di Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo: ogni atto si apre su un sipario sollevato, dipinto secondo la migliore tradizione italiana, che fa da cornice a un ambiente spoglio ed essenziale, dove i pochi e raffinati arredi, insieme ai bellissimi costumi di Maurizio Galante, riescono a evocare un settecento mentale, elegante e astratto. D’altra parte, nel libretto, troppi sono i riferimenti a un’epoca ben precisa (in primo luogo quello relativo allo ius primae noctis che il Conte vorrebbe esercitare sulla cameriera Susanna): destoricizzarli significherebbe non rendere più intelligibili tante componenti veicolate dagli splendidi versi di Da Ponte, ispirati alla rivoluzionaria commedia di Beaumarchais, e ai quali il genio di Mozart ha impresso una stupefacente incisività. La regia, senza mostrare tutto, stilizza e asciuga una serie di situazioni rese di solito in modo assai più didascalico, confidando sulla collaborativa intuizione del pubblico: operazione del tutto legittima con un’opera di tale notorietà.
Lo spettacolo nato al Festival di Spoleto nel 2016 e messo in scena all’Alighieri di Ravenna – a riprendere la regia è stata Patrizia Fini – poteva contare anche su un apprezzabile versante musicale. Benissimo corrisposta dall’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini (che ad ogni ascolto si conferma una delle più solide realtà strumentali italiane), la giovane Erina Yashima ha diretto con grande sicurezza, eleganza e un giusto equilibrio dinamico, privilegiando una concezione geometrica della musica, basata sul rigore e un implacabile appiombo ritmico. Le manca forse – e lo si avverte soprattutto nei pezzi d’insieme – un po’ di esperienza operistica e quella libertà di respirare all’unisono con i cantanti.
Nel cast dominava Simone Del Savio, protagonista di autentico colore baritonale, capace di una pregevole articolazione del fraseggio e dotato anche di una incisiva presenza scenica. Accanto a lui il soprano Lucrezia Drei, sicurissima nella condotta vocale, ha saputo gestire con spigliatezza e notevole verve il personaggio di Susanna. Rappresentata alla maniera dell’ancien régime la coppia nobile: Francesca Sassu, dalla solida linea di canto, ha disegnato una Contessa più austera che morbida, incline al versante drammatico; Vittorio Prato è stato un Conte signorile e prepotente quanto basta, ma senza che la voce – pallida e piuttosto tenoreggiante – lo sostenesse in modo adeguato. Scenicamente credibile nel ruolo en travesti di Cherubino, il mezzosoprano Aurora Faggioli ha affrontato il personaggio con una certa disinvoltura, ma senza riuscire a rendere appieno il turbamento adolescenziale del paggio. Leonora Tess è stata una sicura Barbarina, sfoggiando una certa varietà di accenti nella sua aria. Meno convincenti Ian Stancu (un Don Bartolo con una certa tendenza a stimbrarsi nelle note più gravi), Isabel De Paoli (una Marcellina più rigida che puntuta), Jorge Juan Morata (un Don Basilio poco incisivo nei recitativi). Corretto Jonathan Kim come Antonio e spiritoso il Don Curzio balbuziente di Riccardo Benlodi.
Un’annotazione di particolare simpatia la merita il Coro San Gregorio Magno –o formato da non professionisti – proveniente da Trecate in provincia di Novara e preparato da Mauro Rolfi. L’età dei componenti non era proprio freschissima (più di uno sembrava aver già doppiato la “quota cento”), ma l’impegno è stato davvero lodevole, anche nei passi di danza che siglano il finale del terzo atto.
Giulia Vannoni