Non è possibile parlare di una cucina romagnola in generale perché le “regole” o per meglio dire le metodologie utilizzate per confezionare i cibi (pur riferendosi agli stessi alimenti) variano da territorio a territorio e in alcuni casi anche dentro allo stesso territorio, in base alla classe sociale.
Ed è con questa consapevolezza che Graziano Pozzetto, giornalista, gastronomo e scrittore affronta l’analisi del multisfaccettato “piatto” delle minestre di Romagna. Lui, tra i fondatori del movimento Slow Food, addirittura su Le minestre romagnole, di ieri e di oggi ci scrive un volume. Quattrocento pagine che ripercorrono una storia, che aprono a mondi passati, che danno “ricette”.
Ma attenzione a chiamarle indistintamente “minestre”. Nel testo, Pozzetto se ne guarda bene dal farlo, anzi distingue, tra le altre, quelle della tradizione contadina (della pianura e della montagna) da quelle della tradizione marinara, facendo molta attenzione, poi, a dar loro un posto “diverso” a seconda che le pentole “brontolassero” nelle modeste cucine delle famiglie povere dei contadini e dei braccianti o nelle linde “stanze da cucina” delle borghesia e delle famiglie nobili.
Il cibo e il ciclo della vita
Si legge nella prefazione a firma di Giuseppe Bellosi:
“Nel mondo popolare, ma non solo, il consumo di certe minestre era legato a determinate ricorrenze della vita umana e dell’anno, cioè aveva un valore rituale. Relativamente al ciclo della vita, si può ricordare il pranzo dato dopo il parto, al primo alzarsi della puerpera, durante il quale anticamente si consumava una zuppa o la tardura (antica minestra a base di uova e parmigiano). Nel 1818 Michele Placucci, nel suo “Usi e pregiudizj de’ contadini della Romagna” specifica: «In qualche villa ancora si costuma diversificare la minestra nel pranzo: cioè s’è maschio sarà di gnocchi, ossiano maccheroni, e s’è femmina, di lasagne». Nell’Ottocento era in uso anche il pranzo funebre, che aveva luogo dopo la tumulazione del defunto. A proposito di quest’ultimo lo stesso Placucci annota: «consisterà detto pranzo, o cena in una minestra, che deve essere di così detti manfrigoli, ed in un lesso di carne grossa; consumandosi in alcune ville di ceci senza verun altro cibo». Ceci e manfrigoli hanno la dimensione e la forma dei semi, ci ricorda Eraldo Baldini nel suo saggio La sacra tavola (Bologna, Pendragon, 2003) e quindi simbolicamente rappresentano la possibilità di rinascita del defunto, così come i semi sotterrati danno vita a nuove piante.
Il piatto della festa
Per quanto riguarda il ciclo dell’anno erano i cappelletti in brodo la minestra rituale per eccellenza, legata soprattutto al giorno di Natale ed estesa a pochissime altre feste dell’anno. Michele Placucci, (sempre nello scritto prima citato, ndr) nel 1818, assegna i cappelletti esclusivamente al Natale (e così è stato in alcune zone e presso alcuni ceti ancora per oltre un secolo). E, qualche anno prima, nell’ambito dell’inchiesta effettuata nel Regno italico sulle usanze e le credenze dei contadini del Dipartimento del Rubicone, il prefetto scriveva nella sua relazione: «Il giorno di Natale presso ogni famiglia si fa una minestra di pasta col pieno di ricotta, che chiamasi, di cappelletti. L’avidità di tale minestra è così generale, che a tutti, e massime dai preti si fanno delle commesse di chi ne mangia una maggior quantità, e si arriva da alcuni fino al numero di 400 o 500. Questo costume produce ogni anno la morte di qualche individuo per forti indigestioni». Questo fatto viene considerato in relazione al fatto che i cappelletti venivano consumati in rarissime occasioni.
Le minestre in pillole
Ma torniamo alle minestre romagnole. Nel descriverle, classificarle e identificarle l’autore distingue i “brodosi” piatti in più categorie.
Ci sono le minestre romagnole canoniche, che nel tempo hanno cambiato aspetto e si sono evolute passando da una generazione all’altra che si sono nobilitate a benessere crescente. “Legittimate – si legge nell’introduzione al testo – dall’approdo sistematico nelle mense signorili dell’Ottocento, alle tavole della borghesia dell’inizio del Novecento, alle tavole del popolo di Romagna negli ultimi decenni; piatti codificati e culturalmente omologati in letteratura”.
Ci sono poi le minestre tradizionali oggi diffusamente riproposte sia a casa sia in occasione di feste.
Spazio poi alla cultura marinara. Si legge, ancora nell’introduzione: “Ho raccolto altresì l’esperienze gastronomiche della nostra gente di mare e delle marinerie romagnole, attraverso una selezione rappresentativa di preparazioni di pesce, anche azzurro dell’Adriatico, unitamente ai comuni crostacei e molluschi, non senza considerare le contaminazioni che le hanno contrassegnate”.
Nostalgico, poi, l’accenno alle minestre contadine, povere di ingredienti ma ricchissime di sapori, sapienza e cultura, troppo spesso snobbate e messe all’angolo, a detta dell’autore: “Non me la sono sentita di abbandonare nel dimenticatoio, assieme a brandelli paesani della nostra cultura, al destino delle cose sepolte, certe minestre miserabili, non trasmesse se non oralmente, nei racconti delle stalle; e la grande capacità delle azdòre di un tempo, di mescolare ed elaborare ingredienti poveri e difettosi, carenti in qualità e quantità, ottenendo sovente risultati armoniosi, godibili e ricchi di gusto, esaltando la tavola grande familiare, apprezzata e amata all’unisono da tutti i componenti, dai bimbi ai vecchi, ai senza denti precoci, agli uomini di fatica, alle giovani che preparavano il corredo al telaio. Si tratta di una intensa e corale testimonianza scomparsa con la scomparsa delle mamme e delle nonne, delle autentiche, sapienti, oppure non scolarizzate, intelligenti, autorevolissime azdòre romagnole di una volta, espressione di una cultura plurisecolare, di una biodiversità contadina, distrutta e dimenticata in pochi decenni”.
Non manca di essere critico, l’autore, con il mercato “globalizzato” del consumo culinario. Merce industriale, multinazionale… “cibo senz’anima e senza radici”, sentenzia mestamente.
Angela De Rubeis