Il Messale Romano parla chiaro. «Il sacerdote, al termine del Prefazio, a mani giunte, canta o dice ad alta voce, insieme con tutti i presenti: Santo, Santo, Santo» (OGMR, 148). Un gesto, quello dellemani giunte, che la Liturgia richiede al sacerdote almeno una decina di volte durante la celebrazione dell’Eucaristia.
Perché? Qual è il suo significato? Non è forse un eccessivo formalismo (da bigotti)?
Per comprenderlo è necessario rifarsi al significato antropologico delle mani dell’uomo, le quali, insieme al volto, sono lo specchio più eloquente della sua anima, del suo cuore. Da come muove le mani (in alto o in basso, aperte o chiuse, immobili o agitate) si capisce se è contento o triste, stupito o impaurito, di fretta o soffocato dalla noia. Alzare le mani o abbassarle, in certi contesti (in guerra, allo stadio, in famiglia), dice molto più di tante parole. Dopo il volto sono lo strumento più espressivo del cuore; non afferrano solo le cose, ma anche l’anima e la lanciano per così dire all’esterno, rendendo visibili sentimenti ed emozioni.
Le mani veicolano così anche il nostro linguaggio verso Dio: la preghiera. Tenerle alzate o abbassate, aperte o chiuse, giunte o allargate, composte o lungo i fianchi o dietro la schiena, “dicono” – lo si voglia o no – anche come preghiamo. Ecco perché la Chiesa, maestra in umanità e di preghiera, si preoccupa anche di farci “tenere le mani a posto” nella Liturgia.
Nella nostra cultura le mani giunte rivestono diversi significati. Portate davanti alla bocca o alla fronte, oppure all’altezza del cuore, sono anzi tutto segno di raccoglimento, di con-centrazione (dall’etimo: unire verso il centro), come per racchiudere tutto ciò che abbiamo da dire (la bocca), da pensare (la fronte) e volere (il cuore). Unite palmo a palmo, e non più rivolte verso le cose esteriori, aiutano ad unirsi a Dio, a custodirlo nel cuore, a non lasciarlo andare via.
Le mani giunte sono anche segno di supplica, di richiesta, come quelle del condannato che invoca la grazia o di una madre la guarigione del figlio davanti al medico, quasi volessero stringere tutto il peso del cuore, il valore di una vita e il grido dell’anima.
Esse esprimono inoltre rispetto e riverenza, come si vede nel saluto giapponese e nel namasté indiano.
Infine, sono segno di offerta di sé, di affidamento e di dedizione, come quando si pongono nelle mani di un’altra persona: la sposa in quelle dello sposo; il candidato sacerdote in quelle del vescovo quando in ginocchio gli promette “filiale rispetto e obbedienza”; i consacrati in quelle del superiore quando fanno la professione religiosa. Un gesto che ha la sua origine nella commendatiofeudale del diritto germanico, secondo la quale il vassallo, in ginocchio, poneva le sue mani in quelle del suo signore (immixtio manuum), giurandogli fedeltà in cambio della sua protezione (commendatio).
È proprio con quest’ultima valenza che il gesto entra nella liturgia nel XIII secolo (e sconosciuto ai primi cristiani, che – come abbiamo già avuto modo di dire – pregavano con le mani alzate e allargate, vedi Catechesi, nn. 17.58). Un gesto che diventa sempre più segno della preghiera personale, privata, e che quindi segna anche l’inizio della perdita della dimensione comunitaria dell’Eucaristia, concepita sempre più come una pratica privata.
Il Messale odierno ha voluto mantenere questo gesto con i suoi molteplici significati, tanto da considerarlo il più comune per i ministri durante la liturgia. Lo stesso si potrebbe dire anche per i fedeli, i quali con i loro gesti e atteggiamenti sono chiamati non solo a far risplendere tutta la celebrazione per bellezza e nobile semplicità, ma anche ad esprimere concordemente (insieme!) il significato di ciò che stanno celebrando (OGMR 42).
In particolare, il Messale chiede al celebrante di congiungere le mani, per sé e a nome dell’assemblea, in segno di raccoglimento e di supplica, ma anche di rispetto e di affidamento: prima di pregare la Colletta; quando inchinato profondamente all’altare supplica il Signore di purificare il suo cuore per proclamare degnamente il Vangelo e quando annuncia la Sua presenza prima di leggerlo (Il Signore sia con voi); quando apre la Preghiera dei fedeli e intona il Santo; durante la consacrazione prima di prendere tra le mani il pane e il calice; quando introduce il Padre Nostro (Obbedienti alla parola del Salvatore e formati…) e si prepara a comunicarsi (La comunione con il tuo Corpo e il tuo sangue, Signore Gesù Cristo, non diventi per me giudizio…); prima dell’orazione post-comunione e dopo la benedizione per dire: La messa è finita! (OGMR, 127.132 e altri).
E allora? Allora dovrebbe essere chiaro che la domenica non si va in chiesa solo con i piedi, ma anche con le mani! E possibilmente senza tenerle in tasca, o dietro la schiena, o penzolanti ai fianchi, o conserte e, tantopiù, appoggiate allo schienale del banco davanti!
Elisabetta Casadei
* Le catechesi liturgiche si tengono ogni domenica in Cattedrale alle 10.50 (prima della Messa)