Si chiamano malattie rare, ma i numeri sembrano dire il contrario. Secondo le stime dell’Organizzazione mondiale della Sanità, esistono tra le 6 e le 7mila patologie diverse che colpiscono complessivamente circa il 3% della popolazione. Tradotto in numeri significa tra gli 1 e 2 milioni di persone in Italia e oltre i 35 milioni di persone in Europa.
Ma che cosa si intende per malattie rare? Difficile circoscriverle. Si parla di patologie che colpiscono non più di 5 persone ogni 10mila.
Secondo Rossana Grossi, psicologa e psicoterapeuta di Parma e psicologa di riferimento dell’associazione Prader-Willi Emilia Romagna, “Sono un ampio ed eterogeneo gruppo di patologie, che possono colpire un organo o più organi, per l’80% sono genetiche, per il 20% possono avere altre origini. Sono un gruppo diversificato per origini, trattamenti, clinica”.
Una situazione complessa ingarbubliata, che non aiuta neanche la ricerca di una cura.
“Essendo così tante – continua la dottoressa Grossi – è difficile trovare un numero di pazienti sufficiente per intraprendere dei processi di ricerca e di cura, quindi molto spesso queste patologie rimangono senza linee di cura efficaci”.
Giovedì 28 febbraio si celebra la giornata mondiale delle malattie rare, un momento per portare all’attenzione di tutti un problema che nella quotidianità isola le famiglie.
“Molto spesso – sottolinea Rossana Grossi – i malati rari e le loro famiglie si trovano ad essere soli nella gestione quotidiana delle difficoltà che una sindrome genetica può portare: procurarsi medicinali corretti, avere punti di riferimento per la cura, avere persone esperte per la presa in carico con cure efficaci, per non parlare tutte le pratiche burocratiche per la gestione della patologia nella quotidianità”.
Lo slogan della giornata – che si svolte il 28 febbraio ma in realtà cade il 29 di febbraio, un giorno raro, appunto – è: Integriamo l’assistenza sanitaria con l’assistenza sociale.
“Una cattiva comunicazione, la mancanza di una rete non fa che aumentare le difficoltà che le famiglie vivono. Basti pensare alle commissioni che dovrebbero definire sue una patologia è reversibile oppure no. Siamo stanchi di sentire racconti di famiglie che devono portare i propri figli a queste “revisioni periodiche”, che si vedono negare il rinnovo dell’assistenza a vari livelli perché il bambino cammina e sta in piedi e apparentemente risponde alle domande in modo corretto. Abbiamo a che fare con commissioni non aggiornate, spesso non in grado di essere di supporto a queste famiglie, e quindi queste giornate sono importanti proprio perché sensibilizzano, la società, la politica e il mondo sanitario su tematiche che sono strettamente legate al benessere dei cittadini”.
Ma cosa si può fare quotidianamente per chi si trova invischiato in questa battaglia?
“L’atteggiamento migliore va anche suscitato. Io mi preoccupo e sto attenta a qualcosa che vedo, che conosco, quindi è importante che queste associazioni, che le famiglie si rendano visibili, parlino, facciano conoscere le loro difficoltà e le loro esigenze. Sapere che esistono queste condizioni e predisporre tutte le forme di protezione e le tutele è un atteggiamento che va a vantaggio di tutta la comunità”.
La sindrome di Prader-Willi
Roberto Bianchi, riminese, fa parte dell’associazione Prader-Willi Emilia Romagna da quando è nata sua figlia Chiara.
“Il problema principale è la mancanza di condivisione di informazioni. Siamo costetti ad una sorta di fai da te. Ci appoggiamo ad un centro o ad un altro spesso sulla base dei consigli o di cosa leggiamo. Ma questo è un discorso generico. In particolare il problema principale della sindrome di Prader-Willi è l’obesità genetica. Chi ne è colpito non ha la sensazione di sazietà ed è portato a mangiare in continuazione”.
“È una sorta di dottor Jekyll e mister Hyde che viene da dentro e a cui non si riesce a porre rimedio. Nel nostro quotidiano la difficoltà più grossa è quella di vivere in una società che vede il cibo come momento di aggregazione sociale, cosa che di per sé è anche bella ma che per noi diventa un grosso problema”.
E allora come fare?
“Dalla nascita abbiamo introdotto una dieta ipocalorica, evitando tutti gli eccessi. La difficoltà è far capire agli amici, parenti, compagni di classe che non possono mangiare liberamente. Serve un’assistenza continua. Mia moglie si è dovuta licenziare e si occupa dei figli a tempo pieno. Anche per i compleanni abbiamo dovuto pensare ad un’alternativa, perché la torta è fuori discussioni. Cerchiamo di spostare l’attenzione dal dolce alle candeline. Questa è la nostra quotidianità”.
“Questi bimbi sono vittime di una fame incoercibile – aggiunge la dottoressa Grossi – però vediamo che nelle classi dove sono inseriti, le tematiche legate all’alimentazione acquistano una valenza importante”.