“Ricordati che sei polvere e in polvere ritornerai” era la formula abitualmente usata nella cerimonia dell’imposizione delle ceneri. Oggi si preferisce una formula meno ruvida: “Convertitevi e credete al Vangelo”.
“Sei polvere e in polvere devi tornare” sono le parole che Dio rivolge ad Adamo dopo il peccato (Genesi 3,19). Più che un castigo queste parole dicono che cosa è l’uomo se guarda se stesso senza una Parola che ne sveli il significato nascosto. Se osserva soltanto la propria esistenza, che altro può dire un uomo? È un vivente che, come ogni altro vivente e proprio perché vivente, è destinato a morire. I suoi giorni scorrono più veloci della spola e subito terminano per mancanza di filo, dice Giobbe.
Ricordare che siamo polvere è già una prima conversione, capace di liberarci dalle molte arroganze che riempiono la vita, illudendoci di dare un senso a noi stessi senza Dio. “Il ricco, quando muore, con sé non porta nulla”, dice l’antica saggezza. E ancora: “Non irritarti per chi ha successo, non irritarti; ancora un poco e scompare, cerca il suo posto e più non lo trova” (Salmo 37). Lo sguardo disincantato di chi ricorda la propria caducità, libera dall’arroganza, dalle illusioni, dalle invidie e, persino, dalla paura dei potenti, come il profeta Isaia che ha trovato la libertà di sbeffeggiare la ridicola prepotenza del re di Tiro di salire in cielo, sopra le stelle, per erigervi il suo trono: “Invece sei caduto dal cielo, sotto di te si stendono le larve, i vermi sono la tua coperta” (14,11-12).
È vero: l’uomo è polvere e le sue arroganze sono così ridicole! Ma se la liturgia invita l’uomo a ricordarsene, è per aprire lo spazio all’ascolto della Parola di Dio che gli indica un ben altro destino. Solo se si prende coscienza della propria caducità, lo sguardo si fa pulito in modo d’essere capace di scorgere la potenza salvifica dell’amore di Dio.
“Che cosa è l’uomo?”, si chiede il salmista (Salmo 8). Intelligentemente non pone la domanda a se stesso, né agli altri uomini, ma a Dio. Per conoscersi guarda in alto. Chiedesse soltanto a se stesso la propria identità, concluderebbe semplicemente di essere polvere. Guardando invece verso Dio si accorge di una verità che lo riempie di stupore: “Quando contemplo i cieli, opera delle tue dita, che cosa è l’uomo, perché ti ricordi di lui, un figlio d’uomo perché te ne prendi cura?”. Se lo confronti con l’immensità del firmamento – noi potremmo dire se lo misuri con il tempo, la morte, con il susseguirsi delle generazioni, con il numero sterminato degli uomini che nascono, vivono un’esistenza che pare insignificante, che muoiono – viene spontaneo pensare “che cosa conta un uomo?”. Eppure Dio si ricorda di lui. L’uomo è sospeso alla memoria di Dio – una memoria che non dimentica! – e qui trova la sua grandezza nonostante la piccolezza, qui trova la consistenza e la durata nonostante la sua precarietà. Cambiare la direzione dello sguardo è la seconda conversione.
Una considerazione analoga si legge anche nel profeta Isaia (40,6): “Ogni carne è come l’erba e ogni sua gloria è come un fiore del campo… L’erba secca, il fiore appassisce, ma la Parola del nostro Dio dura per sempre”. C’è dunque un modo per sfuggire alla precarietà: poggiare la propria esistenza sulla Parola di Dio, affidandosi alla sua fedeltà. L’uomo che confida in se stesso è polvere, ma non l’uomo che confida in Dio. Il prologo del vangelo di Giovanni va oltre le parole del profeta: “E la Parola si è fatta carne” (1,14). Non soltanto la Parola salva la nostra caducità, ma è entrata nel mondo della nostra precarietà, in tal modo condividendola e salvandola. Fatto uomo, il Figlio di Dio ha condiviso la morte dell’uomo, mostrando che non è più un cammino verso la polvere, ma verso la risurrezione. Lasciare che la pasqua del Signore imprima senso e direzione alla nostra esistenza è la terza conversione, verso la quale tutta la quaresima è orientata.
Ma non senza un’ultima precisazione: con la sua vita e la sua morte il Figlio di Dio ha mostrato con chiarezza che non ogni modo di vivere vince la precarietà, ma soltanto una vita orientata al dono di sé.
È l’amore che vince la morte.
È il Crocifisso che è risorto.
Bruno Maggioni