In un’era tecnologizzata, dove tutto ormai è robotico, è difficile pensare ai lavori manuali. Se poi si tratta di quel tipo di lavori molto pesanti e faticosi, è praticamente impossibile. Eppure, fino a non troppo tempo fa, a Santarcangelo esisteva – come in diverse altre città – il Gruppo Facchini. Ho fatto visita a Pietro Vincenzi, conosciuto da molti come “Pirìn ad Zvanoun”. Pietro è l’unico rimasto in vita degli uomini che costituivano questo storico gruppo santarcangiolese. Il 3 gennaio scorso, Pirìn ha raggiunto la bella età di 92 anni. Ha i capelli bianchi e l’udito un po’ stanco… ma ancora tanta energia e voglia di raccontare.
Pirìn, quando si è costituito il Gruppo Facchini a Santarcangelo?
“Nel primo dopoguerra, al tempo del fascismo. Io ho iniziato però nel ’53, quando mi sono trasferito qui da Canonica. Ero figlio di contadini, venivo dalla campagna. E lì non c’era abbastanza lavoro per tutti. Quindi ho deciso di unirmi al gruppo”.
Oggi è rimasto solo lei. Quanti eravate?
“Eravamo una quindicina, più o meno. Li ricordo tutti: Giovanni, detto Pacini; Cesare, chiamato Zurzòin; Fredo e Giorgio Balducci, che tutti conoscevano per ‘Zirandla’. Poi ancora Augusto, Settimio, Alfredo ‘e Gag, Dino, Francesco, Dario, Rinaldo, Marsilio, Riccardo, Serafino e Salvatore il Baffo, che chiamavamo così perché teneva i baffi lunghi per mimetizzare un po’ il grosso naso. E poi c’era Piumino! Lui ha cominciato presto, aveva vent’anni. Il suo vero nome era Livio, ma portava sulle spalle i sacchi da un quintale come fossero piume, e così tutti hanno cominciato a chiamarlo in quel modo. Eravamo un gruppo molto affiatato: siamo rimasti amici per sempre, anche dopo aver smesso di lavorare”.
Qual era l’età media?
“Alcuni hanno cominciato a 20 anni, altri a 25 o 27 e hanno lavorato fino alla pensione. Io ho smesso alla fine dell’81, avevo 55 anni”.
Per chi lavoravate?
“Per la Marchino scaricavamo la pozzolana, la bauxite, il carbone. Per il Consorzio agrario, invece, grano e granaglie. Poi abbiamo lavorato molto per i mangimifici di Savignano, soprattutto per Brandolini. E poi ancora per le altre aziende di Santarcangelo: per i Moroni del legname, per i Mussoni dei generi alimentari, per la Fisi, la Comea. Il lavoro era molto: un anno siamo arrivati ad assumere fino a 20 operai. Per un periodo abbiamo smistato anche la posta, tre vagoni interi! Nel ’56 siamo stati costretti a comprare l’escavatore e così abbiamo iniziato a lavorare anche di notte, per vuotare i vagoni in fretta e non pagare la sosta obbligata. Ci è costato 9 milioni di lire, una cifra enorme per quei tempi. Abbiamo finito di pagarlo nel ’64. Una grossa spesa, ma anche un grande aiuto. Arrivavamo a vuotare anche 30 vagoni di terra, senza quel mezzo non ci saremmo riusciti”.
Qual era l’incarico più difficile?
“Tra i tanti forse quello delle pelli: c’era un magazzino che le raccoglieva e noi andavamo a scaricarle e a fare i pezzi. Poi c’erano i traslochi, che non tutti volevano fare. E anche lo scarico del carbone non era tra i lavori preferiti”.
Lo sa, Pirìn, che quasi fatico ad immaginarmi un lavoro così duro?
“Si, era faticoso, in gran parte era tutto lavoro di mani e braccia. E le mie gambe oggi ne portano le conseguenze: faccio un po’ fatica a camminare e ho anche qualche dolore. Ma era il mio lavoro!”.
Tra tanta fatica, ci sarà stato anche qualche momento un po’ più leggero. O no?
“Negli anni ’60 alla stazione arrivavano i turisti e noi facevamo il lavoro di facchinaggio con le valigie. C’erano tra di loro anche delle belle ragazze! Qualche occhiata, qualche risata, ma niente di più”.
Com’era organizzata la giornata?
“Si lavorava a chiamata, qualcuno stava in piazza e altri facchini rimanevano alla stazione. La gente veniva a cercarci sul posto. Facevamo colazione alle 6 e poi, dopo aver scaricato qualche vagone, verso le 8 si andava a mangiare qualcosa: alcuni a casa, altri nell’albergo o nell’osteria a gustare la trippa”.
Pirìn, si ricorda qualche collega un po’ particolare?
“C’era qualcuno che ogni tanto, invece di lavorare, dava fastidio. Qualcun altro che a volte batteva la fiacca e si nascondeva dietro i camion per non scaricare. E poi ce n’era un altro che aveva il vizio di andare al bar: suo babbo era venuto a saperlo e allora un giorno è andato a cercarlo. Quando l’ha trovato, il figlio si è difeso dicendo che era andato al bar per prendere da bere qualcosa di fresco per conto dei colleghi. E così ha dovuto pagare per forza una birra a tutti! È un episodio che mi è rimasto in mente, ci siamo divertiti molto”.
Quando è finita l’attività?
“Da oltre una decina di anni il Gruppo Facchini non esiste più. Quando qualcuno andava in pensione, nessuno veniva sostituito. D’altra parte i carichi hanno cominciato ben presto a girare su strada, e i pesi da scaricare dai vagoni diventavano sempre più rari. Con i muletti e i mezzi moderni ‘l’attività di braccia’ è scomparsa”.
È contento di aver fatto questo mestiere? Lo rifarebbe?
“Non lo so. Ai tempi si diceva: ‘dopo il becchino, vien solo il facchino’, pensi un po’! È stato un mestiere molto duro, faticoso, si caricava tutto sulle spalle. Io sono andato in pensione perché dopo aver portato tanti pesi non riuscivo più a fare gli scalini. Però ho dei gran bei ricordi: i miei amici più cari erano Macari e Dino Faini. Oltre al lavoro, ci univa un grande affetto. Ci trovavamo al bar, la domenica”.
Oggi Pirìn dimostra molti anni in meno di quelli che la carta d’identità confessa. I segni del suo duro mestiere li porta nelle gambe, nelle braccia, sulla schiena. Benjamin Franklin, noto scienziato e politico statunitense, diceva: “Tieni in pugno il tuo lavoro, o sarà lui a tenere in pugno te”. Pietro Vincenzi, classe 1926, pare ci sia davvero riuscito.
Roberta Tamburini