Il 16 agosto 1916. Una data impressa nel profondo della coscienza collettiva riminese, indelebile della memoria di tutti. In questo giorno, alle 9 di un mattino estivo di inizio Novecento, la terra sotto Rimini e la costa Adriatica ha tremato, con un’intensità tale che, ancora oggi, si parla del famoso “Terremoto del 1916”. Un evento sismico devastante, che non si è manifestato, purtroppo, in modo isolato: l’episodio del 16 agosto, infatti, fu preceduto da mesi di terremoti, una serie di numerose scosse e un altro evento macroscopico, il 17 maggio, tutti superiori a una magnitudo di 4,5. Terribili gli effetti. Circa quaranta località lungo la fascia costiera, tra Rimini e Pesaro, entroterra compreso, subirono crolli e gravi lesioni negli edifici. Pochissime, se non nessuna, abitazione fu completamente risparmiata. Particolarmente colpita fu Riccione, dove molte case, specialmente nella parte alta della cittadina, andarono distrutte.
Però tra i tanti, troppi, effetti negativi che questo evento produsse è possibile trovarne perlomeno uno positivo. Grazie al sisma, infatti, fu possibile riportare alla luce intere opere che, ancora oggi, fanno parte del vastissimo patrimonio artistico riminese: nello specifico si parla di una serie di affreschi rinvenuti nella chiesa di Sant’Agostino, risalenti al periodo trecentesco. Un episodio strettamente legato alla storia della città, che il riminese Pier Giorgio Pasini, storico dell’arte, ha deciso di trattare nel libro Vicende del patrimonio artistico riminese (Panozzo Editore, 2010). Di seguito un estratto del suo saggio, in cui si racconta la vicenda del terremoto, il rinvenimento degli affreschi e la creazione della Pinacoteca civica.
La scoperta della “pittura riminese del Trecento”
“Gravissimi furono i danni provocati dal terremoto del 1916 al patrimonio artistico locale. Alcuni campanili, alcune cappelle, molti soffitti crollarono o dovettero essere abbattuti; e quasi tutti gli stucchi settecenteschi caddero o subirono mutilazioni di notevole entità. Al terremoto vanno poi attribuiti alcuni danni ‘indiretti’: per esempio la sparizione del grande e stupendo portale serliano del Palazzo Comunale, demolito per comporre il falso Arengo ‘trecentesco’ che si ammira oggi; o la perdita dell’ancona seicentesca, del soffitto e del coro settecenteschi che erano nell’abside di Sant’Agostino. […] Non possiamo soffermarci sui danni diretti e indiretti di questo che fu l’ultimo grosso terremoto di Rimini; ma dobbiamo almeno ricordare una grande e vistosa variazione in positivo dovuta proprio al terremoto per quanto riguarda il nostro patrimonio artistico: il recupero degli affreschi di Sant’Agostino, che permise di far luce sulla trecentesca scuola pittorica locale.
Numerose notizie di pittori riminesi del Trecento erano già state segnalate dal Tonini, ma per gli studiosi si trattava di nomi vuoti di significato. L’apparizione di questi affreschi sotto uno spesso strato di calce e di intonaco fu una vera sorpresa, e quasi non si volle credere che potessero appartenere ad artisti riminesi della prima metà del Trecento; furono attribuiti infatti, inizialmente, a Bittino da Faenza, nel secondo decennio del Quattrocento. Lentamente, e con fatica, vennero poi chiarite, all’interno della «scuola giottesca riminese», le varie correnti locali; così, presto fu evidente l’importanza della scuola riminese e si tentarono le prime definizioni delle personalità artistiche. Un lavoro che, pur lontano dalla perfezione, permise l’organizzazione di quella Mostra della pittura riminese del Trecento, nel 1935, che per Rimini è stata l’esposizione d’arte più importante del Novecento. È necessario sottolineare che ai lavori preparatori per quell’esposizione si debbono il reperimento, lo studio e il restauro di molti capolavori prima sconosciuti, anche perché obliterati da grossolani restauri o da ampie ridipinture ‘devozionali’: è il caso, fra i tanti, dei crocifissi della Pieve di Santarcangelo e del Tempio Malatestiano; quest’ultimo rivendicato poi a Giotto medesimo.
Il restauro degli affreschi di Sant’Agostino e il distacco di quell’ampia porzione che ora si trova nel Museo della città, raffigurante il Giudizio Universale, furono dovuti soprattutto all’iniziativa di Vittorio Belli e di Alessandro Tosi; ma furono favoriti dall’interesse dimostrato per la nostra città da Francesco Malaguzzi Valeri e da Corrado Ricci.
A ben guardare gli ‘anni venti’ costituirono per il patrimonio artistico riminese un periodo abbastanza felice. Le ricerche del Ricci e del Malaguzzi Valeri, insieme a quelli del Belli, del Tosi e del Giovanardi, e poi del Grigioni, del Soranzo e del Massera, incentrate quasi tutte sul Medioevo e sul Rinascimento, valorizzarono l’arte locale e sensibilizzarono al problema della sua conservazione tanto le autorità quanto la cittadinanza. L’opera abile di un notevole restauratore, Giovanni Nave, permise di recuperare, oltre agli affreschi di Sant’Agostino, quelli di Scolca e di Santa Rita”.
La Pinacoteca civica
“Ad un altro restauratore, Pompeo Felisati, si deve in questo periodo la scoperta dei quattro personaggi malatestiani nella celebre tavola del Ghirlandaio del Museo riminese: un restauro ormai divenuto ‘classico’, che contribuì a reclamizzare la nuova Pinacoteca civica allestita nell’ex convento di San Francesco, accanto al Tempio Malatestiano.
La rifondazione della Pinacoteca di Rimini rientrava in un piano di ristrutturazione globale degli istituti culturali cittadini avviato da Aldo Francesco Massera. […] Già verso il 1910 si era pensato di dare una nuova struttura ai musei riminesi, cominciando (secondo la tradizione) dalle raccolte archeologiche, che si volevano riordinare nella rocca malatestiana. Probabilmente a Vittorio Belli va il merito di aver indicato l’opportunità di sistemare il museo nell’ex convento francescano. Certo fu un’idea bellissima; non solo quel vasto edificio avrebbe permesso di accogliere tutte le raccolte riminesi, offrendo un quadro completo della storia e dell’arte locali; ma, per la sua contiguità al Tempio Malatestiano, avrebbe permesso di considerare quest’ultimo in un contesto più vasto. L’allestimento della nuova pinacoteca preparato dall’interessamento di Corrado Ricci, che aveva fatto acquistare dal Governo e depositare a Rimini alcune opere di grande importanza, fu merito comunque del Malaguzzi Valeri; che riuscì a convogliarvi, oltre a tutte le opere di proprietà comunale arricchite da nuove accessioni, molte opere della Congregazione di Carità e del Capitolo del Duomo; quest’ultimo anzi si meritò una sorta di encomio solenne.
Nell’insieme la nuova pinacoteca vantava un centinaio di buoni dipinti, e in più arazzi, busti marmorei, mobili e maioliche; fu allestita con un certo gusto, a metà fra la casa borghese e il palazzo nobile, e suscitò l’entusiasmo degli uomini di cultura e degli studiosi, tanto che subito si cominciarono a ordinare nello stesso edificio i materiali del futuro Museo Archeologico (che fu inaugurato nel 1932). Ma scarsi furono l’entusiasmo e la collaborazione della cittadinanza e degli enti pubblici; e alcuni anni dopo il Malaguzzi, ricordando la sua opera come «lunga, faticosa ed intralciata da molte difficoltà», lamentava ancora la «mancanza di mezzi, l’assenteismo dei privati, ed istituti finanziari». Effettivamente ai «privati facoltosi» non interessavano molto gli sforzi per riunire e valorizzare il patrimonio artistico locale, tanto che pochissimi (Vittorio Belli, Alessandro Tosi e Domenico Francolini) offrirono in dono o in deposito i loro dipinti. Per gli altri il museo era il «salotto buono», in cui si può mettere piede solo in circostanze particolari”.