Secondo appuntamento di Kammeroper alla Mole Vanvitelliana di Ancona con la divertente operetta Pépito di Jacques Offenbach
ANCONA, 5 settembre 2020 – Pépito è il grande assente. Pur dando il nome all’opéra-comique di Offenbach non compare mai in scena: è la fedele Manuelita a evocare il suo innamorato, salvo poi scoprire che – dopo tre anni di lontananza – si è accasato con un’altra. Nel frattempo la ragazza deve resistere all’insistente corteggiamento del locandiere Vertigo e alle avances di Miguel, appena rientrato dal servizio militare: di fronte al giovane, tuttavia, capitolerà.
Il libretto di Léon Battu e Jules Moinaux – rielaborazione, ancora una volta, di uno dei tanti lavori sfornati dall’atelier Scribe – concepisce una trama nell’insieme piuttosto esile: non bisogna, però, dimenticare che si trattava di musica di consumo, sebbene confezionata da Offenbach con grande maestria (Pépito andò in scena a Parigi nel 1853). L’effetto comico è assicurato dalle innumerevoli citazioni musicali di cui è cosparsa la partitura: gli intenti parodistici vengono smaccatamente esibiti, in modo che il pubblico possa subito riconoscere le pagine operistiche, spesso celeberrime, chiamate in causa.
Si alternano così rievocazioni esplicite, come Largo al factotum del Barbiere, di cui Vertigo fa la parodia nella sua esilarante aria d’esordio (e il baritono Alfonso Antoniozzi ci riesce benissimo), ad altre meno ostentate, come la successiva serenata. E se l’allusione alla Fille du régiment viene filtrata dalla prima aria di Manuelita, la memoria dell’Elisir d’amore serpeggia in più punti: suggerita dalla comune ambientazione in un villaggio basco, così come dalle rievocazioni – sottotraccia – di Dulcamara. È di segno prettamente musicale, invece, la citazione della sbornia di Osmin (dal mozartiano Die Entführung aus dem Serail) nell’esilarante terzetto del brindisi: vertice comico della breve operetta.
Pépito è stato proposto, come secondo titolo di Kammeroper alla Mole Vanvitelliana, in una traduzione italiana (versione ritmica di Vincenzo De Vivo) necessaria a rendere comprensibile il testo, vista l’alternanza fra momenti cantati e dialogati. Antoniozzi, che ne ha curato anche la regia, ha poi arricchito le parti recitate, scegliendo di ambientare l’operetta esattamente cento anni fa, nel 1920, quando imperversava un’altra temibile pandemia: la “spagnola”.
Questo lavoro per tre soli personaggi si è rivelato del tutto compatibile con le regole imposte dal distanziamento, tanto più – come ci ha tenuto a precisare Antoniozzi in un prologo esplicativo – che i due giovani interpreti di Manuelita e Miguel, fidanzati nella vita reale, potevano permettersi anche il contatto fisico sulla scena. A dare voce alla vivace locandiera la bravissima Maria Sardaryan, soprano armeno che ha già avuto modo di farsi apprezzare nonostante la giovane età. Disinvolta in scena e dotata di sostanziosi mezzi vocali, ha affrontato con notevole sicurezza una scrittura spesso virtuosistica, sfoderando anche un’ottima dizione italiana nelle parti cantate. Accanto a lei, il tenore Pierluigi D’Aloia era un simpatico Miguel. Fulcro del terzetto Antoniozzi, che ha saputo ben coordinare i due più giovani colleghi, mettendoli sempre a loro agio. Come “buffo” tendeva a privilegiare la recitazione, visto che possiede ottime qualità di attore, da fare invidia ai più consumati interpreti di prosa: sempre sciolto e misurato, non ha mai avuto bisogno di ricorrere a improbabili gigionerie.
L’Orchestra Sinfonica Rossini era formata solo da una dozzina di strumenti, fra cui chitarra e fisarmonica (la rielaborazione di Giovanni Piazza per insieme da camera, del resto, era stata concepita nel 1987 per il Cantiere di Montepulciano). A dirigerla Marco Guidarini, che ha ben coordinato orchestrali necessariamente distanziati, pur non riuscendo a evitare una certa dispersione del suono. Gli spiritosi costumi erano di Stefania Cempini, mentre le luci e i pochi elementi scenici (la spartana mise en espace prevedeva due tavoli da osteria e un paio di manifesti con ironiche indicazioni sanitarie che facevano il verso alle odierne posizioni negazioniste) portavano la firma, anche questa volta, di Lucio Diana.
Giulia Vannoni