All’albergo sociale, Guido, è entrato dopo un anno di carcere, quattro di comunità e parecchie settimane passate a dormire sotto le stelle. Era il luglio del 2014. Prima il contatto con la Caritas, poi con l’assistente sociale. La sua è una delle tante storie di difficoltà, spesso croniche, che una fetta sempre più grande di popolazione vive quotidianamente. Viene definito “disagio abitativo” e colpisce in modo indistinto singoli, famiglie e coniugi separati che spesso e anche in modo improvviso si ritrovano senza più un’abitazione. L’albergo sociale è una vera e propria misura di emergenza, un luogo messo a disposizione di chi non ha altri luoghi, perché, come dimostra la storia di Guido, è difficile uscire dal pantano della povertà e della disperazione se come prima cosa non si ha una stanza in cui riposarsi e vivere all’asciutto, dormire e organizzare i propri pensieri.
“Anche le difficoltà servono” dice Guido poco dopo aver cominciato a raccontare la sua storia. Lo fa con un viso sorridente, che alcune volte nasconde qualche tentennamento, ma che poi ritrova subito una certa serenità. Seguirlo nella sua storia non è facile. Salta avanti e indietro tra la speranza dell’adesso, e i momenti difficili, quando non tragici, del passato. Compirà 42 anni a giorni, e in questi 41 ormai alla fine le cose non sempre gli sono andate bene, anzi, a dirla tutta ha scontato cari i suoi sbagli.
“Ho fatto degli errori, e li ho pagati. Penso che alcune volte ci accade quello che ci meritiamo, altre volte però è dura”.
Viviamo di pregiudizi, lo facciamo tutti. Però a cosa serve il carcere, quando anche alla fine della prigione si continua a scontare la pena? Guido racconta che dopo tutto l’iter carcerario e di comunità e una serie di corsi professionali per imparare il mestiere di cameriere, le volte in cui ha provato a cercare lavoro si è trovato di fronte sempre a molte difficoltà.
“Quando vado a propormi negli hotel, la prima cosa che i datori di lavoro controllano sono i precedenti. Se ne hai, non ti vogliono. Per me tutte le porte sono chiuse”.
Quanti problemi. Le cadute di Guido cominciano presto, a 3 anni, quando la madre lo rifiuta. Anzi rifiuta Guido e il suo gemello.
“Abbiamo cominciato a girare per istituti, collegi, e scuole, sempre lontano da casa. Poi da ragazzo sono tornato a vivere con mio padre e mi sono iscritto all’alberghiero. Ma frequentavo giri poco raccomandabili e mi misi a spacciare fumo”.
Per anni vivacchia in questo modo. Non viene mai preso dalle forze dell’ordine che però lo controllano e lo conoscono bene. Quando lo beccano con 70 grammi di hashish ha 34 anni, e la pena è molto severa: 12 mesi di carcere e 4 anni di comunità.
“È stata molto dura all’inizio. Mi sentivo abbandonato, senza speranza. Anche all’arrivo in comunità le cose sono state difficili. Alla Papa Giovanni XXIII il programma si basa sul lavoro. Da questa fatica giornaliera io sono partito per lavorare su me stesso, e poi all’autoanalisi. Ho cominciato a vedere i problemi dietro i quali mi nascondevo, cosa migliorare del mio carattere. Per tanti anni, dopo essere stato abbandonato, ho imparato a stare bene con gli altri e a stare bene da solo. Ho trovato un grande aiuto per superare i miei limiti”.
La comunità segna per Guido un momento di svolta, ma le cadute sono sempre dietro l’angolo.
“Appena fuori dalla comunità mi sono sentito di nuovo solo. I corsi fatti non mi aiutavano a trovare lavoro, non avevo un luogo dove andare: ho dormito in giro, dove trovavo. Per alcuni mesi mi sono appoggiato in un garage, oppure sotto le stelle. Altre volte alla Capanna di Betlemme. Ma non riuscivo a stare bene. Poi un contatto della Caritas mi ha consigliato di parlare col mio assistente sociale e di fare domanda per l’albergo sociale”.
La svolta. Guido fa domanda, e nel luglio del 2014 gli viene assegnata una stanza. Da qui le cose cambiano nuovamente. L’emergenza è tamponata, e ora si può guardare al futuro con un po’ di serenità in più, con la tranquillità di non dover ancora dormire all’aperto o di non finire chissà dove.
“Ora sto meglio, davvero meglio. Ho un posto in cui stare. È vero, è piccolo, è una stanza che alcune volte mi sta stretta, ma è sempre un posto in cui posso tornare e sento casa mia. Ora sento di avere delle opportunità”.
Ha ripreso a fare corsi, e spera – così gli hanno assicurato – di avere un lavoro a breve tempo. Poi potrà passare a cercare un alloggio, magari popolare, e trasformare i suoi 42 anni in un nuovo punto di partenza.
Stefano Rossini