A Jesi prima esecuzione assoluta dell’opera di Marco Taralli, su un libretto tratto da Delitto all’isola delle capre di Ugo Betti
JESI, 25 novembre 2022 – C’è una generazione di scrittori teatrali italiani messi in ombra dalla grandezza di Pirandello, e pure di Eduardo, ma non per questo meno interessanti. Tra loro un ruolo di primo piano lo ha certamente Ugo Betti, autore di ben ventisette drammi e oggi sparito dai cartelloni, al pari di Fabbri, Bontempelli e altri ancora. Soprattutto per mancanza d’interpreti adeguati, tanto che ai nostri giorni – scomparsi i vari Gassmann, Randone, Buazzelli – a nessuno viene più in mente di rappresentarli.
Fra i testi più famosi dello scrittore marchigiano, c’è un noir di sorprendente modernità: Delitto all’isola delle capre, andato in scena per la prima volta a Roma nel 1950, che adesso è diventato – grazie alla penna di Emilio Jona – un libretto d’opera, per la musica di Marco Taralli. La prima esecuzione è appena avvenuta a Jesi, per la stagione lirica, mentre la prossima tappa sarà Camerino, città natale di Betti.
Le trasposizioni sono sempre rischiose, ma l’ormai novantacinquenne Jona – peraltro librettista collaudato – è riuscito a salvaguardare le caratteristiche principali di un dramma che quasi sfiora la potenza di una tragedia greca. Rispetto al testo originale ha introdotto un punto di vista un po’ diverso, semplificando inevitabilmente alcuni snodi: si è così perduta una certa ambiguità legata a situazioni che per Betti restavano sottintese e indeterminate, a vantaggio di una definizione fin troppo netta.
Tre donne di generazioni diverse – una vedova, sua figlia e la sorella del marito – vivono su un’isola, allevando capre; nel loro microcosmo irrompe un uomo e l’impatto di questa figura maschile, che viene naturalmente percepita in modo diverso a seconda della loro anagrafe, agisce da detonatore di pulsioni erotiche tenute in sonno da tempo. Le tensioni verranno allo scoperto e il terzetto – tossico, come spesso lo sono i ginecei – prima è destabilizzato da questo intruso, poi si ricompatta attorno alla sua eliminazione, visto che l’uomo si rifiuta di andarsene.
Man mano che si precipita verso la tragedia, la musica di Taralli riesce a creare una tensione sempre crescente in orchestra, sfruttando le risorse timbriche dell’ottimo The Machine Ensemble: un insieme di giovani e talentati strumentisti – qui formato da dieci componenti – diretti con rigore e precisione da Marco Attura. Meno varie le linee di canto, non solo per la scarsa differenziazione nelle scritture vocali femminili, ma per una certa omogeneità altimetrica, che finisce anch’essa per livellare un po’ troppo i loro profili psicologici.
Più accurata invece la vocalità di quello che, almeno nella trasposizione librettistica, diventa il vero perno dell’opera: fin dal nome, Angelo, il protagonista maschile richiama più che mai la sua intenzione a volare sopra le tre donne, nei confronti delle quali ha un atteggiamento oscillante tra il protettivo e il dispotico. In modo forse ossimorico, Taralli lo immagina basso, coerentemente con la fine che gli toccherà: verrà lasciato morire, con una scelta più che mai simbolica, in un pozzo, che registicamente è rappresentato dalla buca orchestrale. Purtroppo Andrea Silvestrelli, a causa di uno scarso controllo del proprio imponente strumento, non riesce a sfruttare l’occasione offerta da un ruolo che poteva essere di grande soddisfazione.
Sofia Janelidze ha interpretato la vedova Agata, donna sfiorita seppure ancor giovane, il cui colore mezzosopranile ben evocava quella sensualità che la presenza dell’intruso risveglia in lei. La figlia Silvia, con cui ha rapporti conflittuali, era il soprano ucraino Yuliya Tkachenko, dalla voce un po’ aspra, ma in grado di rendere la scontrosità degli adolescenti. Federica Vinci – peccato per la dizione non sempre intellegibile – ha saputo delineare una convincente Pia, sorella del professore scomparso, ormai stanca dell’isolamento e smaniosa di riconquistarsi la città. Accanto al questo quadrilatero un altro piccolo ruolo maschile, ben assolto dal tenore Alessandro Fiocchetti, il vecchio autista che rifornisce di provviste le tre donne.
Lo spettacolo concepito dal regista Matteo Mazzoni trova il suo punto di forza nella scena di Josephin Capozzi, vincitrice della seconda edizione del concorso riservato agli studenti di scenografia delle accademie di belle arti, intitolato al grande Josef Svoboda (che si concretizza, come già nel dittico Rota/Wolf-Ferrari dello scorso anno, in una messinscena al Teatro di Jesi): una grande roulotte al posto di una vera e propria casa, che allude alla scelta di una vita alternativa operata tempo addietro dai personaggi e, al tempo stesso, con la sua precarietà, ne ribadisce il carattere transitorio e la necessità di affrancarsene.
Giulia Vannoni