In un’azione pittorica lenta e misurata, si afferma oggi la cifra conclusiva della serie di vedute che Giorgio Bellini propone a Palazzo Ripa come meta ultima del suo percorso d’artista: “La visione Velata. 50 anni di paesaggi”. Il mezzo secolo di pittura di Giorgio Bellini indica una linea precisa d’evoluzione stilistica e poetica, tanto quieta e lenta negli sviluppi visibili, quanto certa e determinata nelle convinzioni interiori. Il pittore, nato a Vergiano nel 1937 e diplomato all’Accademia di Belle Arti di Roma, ha attirato negli anni l’attenzione di molti intenditori d’arte: Luigi Pasquini, Enzo Dall’Ara, Gerardo Filiberto Dasi, Luca Cesari, Vittorio Sgarbi, Antonio Paolucci, Gabriello Milantoni, Bianca Arcangeli.
Egli è uno dei piccoli protagonisti della vicenda segreta e minore dell’arte tradizionalista locale; è uno dei sapienti artigiani del pennello, degli umili iniziati che calibrano il loro estro su vetusti dettami, dei seri professionisti di un mestiere sempre più appartato. Eppure sarebbe scorretto pensare alla sua pittura come ad uno stagno immobile, mai increspato da inquietudini e mutamenti, piatto e senza sommovimenti e vibrazioni.
Ora, con gesto quasi rituale, si stendono le sue caligini, sempre più spesse e ricercate. Qui, tuttavia, la poetica della “velatura” del paesaggio si estenua fino ad assumere in sé l’irriconoscibilità come valore poetico nuovo e definitivo: l’elemento paesaggistico tradizionale viene volutamente sottoposto a un’operazione di occultamento storico e geografico, per cui la dialettica di visibile-invisibile s’accresce del contrasto tra radicamento e spaesamento. L’istinto del pittore lo conduce ad isolare e accerchiare isole naturali ed artistiche sottratte al concreto, trasfigurate in un’universalità che, pur partendo da una precisa fonte, tenti di superare il localismo connaturato a tale pittura.
Non riconoscendosi più in un determinato luogo della Romagna, Bellini dipinge un paesaggio ormai del tutto interiore e spirituale, disancorato dai lacci più stretti della realtà: la nebbia che i maestri della sua terra hanno pensato come metafora inquietante della morte e dell’ignoto, come similitudine della nostalgia addolorata per un tempo ormai irraggiungibile è sentita invece da Giorgio come l’evaporare dello sguardo verso la luce ed è affrontata con fiducia e gioia. Nell’abbandono più deciso del visibile egli si riconduce ai fondamenti di quella fede francescana da cui prese le mosse un tempo: l’alleggerimento intensivo dell’olio è divenuto non tanto il segno di un distacco dall’oggettività che egli considera il fulcro del suo realismo devoto, bensì il canto che tutto pervade. Non è la negazione della terra e delle cose in favore del cielo ma è l’assunzione del reale nell’ideale, del terrestre nel celeste. L’occultamento della natura è anche il desiderio di protezione dei luoghi amati non solo dalla barbarie architettonica e paesaggistica del nostro tempo, ma anche dalla distrazione di troppi: il velo riconduce sulle vedute interesse e attenzione, stende sulle cose un viluppo di luce e poesia, segnala con un’aura potentemente sentita e ascoltata la segreta sacralità della terra.
Giorgio raccoglie qui il lascito dei suoi avi: le marine “impressioniste” e celesti di Emilio Filippini, i pastelli urbani d’Isidoro Barilari, le macchie liquide e luminose di Luigi Pasquini (suo maestro), le campagne azzurre di Giovanni Sesto Menghi, i vapori cromatici di Guido Ricciotti, la lirica agreste di Edoardo Pazzini, gli sfumati marittimi di Alberto Bianchi. Proprio per questa sua cultura arcaica e attardata, per questa sua fuga dalla storia e dal confronto con il mondo esterno, non è stato ricordato nelle due grandi mostre dedicate al Novecento Riminese (1997-1998): egli resta, però, l’ultimo, piccolo segreto maestro – “docente” nascosto e indiretto – di quella pittura minima e confidenziale, di quel decoro elegiaco ed evocativo, che oggi continua in non pochi pittori delle terre di Romagna. I suoi trasognati orizzonti pittorici, di fronte a un presente inospitale, non si stancano di ribadire la sua fede ingenua e vera.
Alessandro Giovanardi