Estate 1989: chi non ricorda quell’odiosa sostanza marroncina e gelatinosa che restava tenacemente attaccata alla pelle? Appiccicosa, viscida, tanto difficile da rimuovere allora, quanto ancora oggi ben avvinghiata ai nostri ricordi. Una parola, un incubo: mucillagini.
Sono i mesi di giugno e luglio: il mare si trasforma in una tavola giallastra che inizia a far crollare i primi pezzi di quel miracolo turistico eretto con tanta fatica nel dopoguerra. Nei primi di luglio quando la “malattia” raggiunge il culmine, ad invadere l’Adriatico sono ben 12mila chilometri quadrati di microalghe. La disperazione sale: molti alberghi della riviera devono fare i conti con disdette telefoniche, camere vuote, sale da pranzo praticamente deserte. A metà luglio le stime del turismo parlano di un 40 per cento di vacanzieri in meno. I bagnini si sforzano di eliminare dalla battigia ogni piccolo rimasuglio di quella melma e tentano invano di tranquillizzare i bagnanti. “Cosa succede al mare?”, una domanda a cui praticamente nessuno sa rispondere. Anche i turisti più affezionati fanno le valigie prima del previsto di fronte a quelle acque putride. I più avventurosi non rinunciano ad un tuffo ma quando arrivano sotto la doccia è una tragedia…
È in quella estate che “tiriamo fuori dal cilindro il «turismo della notte» perché non si può star lì ad indugiare su quello del sole” ricorda anche il giornalista-storico di Rimini, Silvano Cardellini, nel suo capolavoro Una botta d’orgoglio (2003). “Ci danno per morti – scrive Cardellini -. Su Rimini, anzi sulla fine di Rimini, si esercitano tutti i giornali. È la ricorsa degli intellettuali a scrivere il necrologio della riviera…”.
Esperti impreparati
Giuseppe Montanari, responsabile dei monitoraggi marini per il Battello Daphne, aveva questo incarico anche nel 1989.
“Quando iniziò a presentarsi il problema fummo tutti colti di sorpresa, la prima cosa da fare fu seguire l’estensione del fenomeno quindi cercare di capire di cosa era fatta quella sostanza, come si evolveva e come si sviluppava”.
Cosa possiamo dire vent’anni dopo?
“Qualcosa di più sulle cause ma ancora non ci sono tutti gli elementi per chiarire il fenomeno che resta difficile da prevedere”.
Molti allora collegarono le mucillagini ad un inverno troppo mite.
“In realtà ci sono stati anni in cui le mucillagini si sono presentate anche dopo temperature molto basse. È un aspetto sul quale ancora non c’è chiarezza così come il legame con il mare particolarmente calmo”.
1989-2009: quante volte sono comparse le mucillagini nel nostro Adriatico?
“Si sono presentate altre volte, pur in misura inferiore e con manifestazioni a ‘macchia di leopardo’. Il problema è proseguito fino al 1992, dal ‘93 al ‘96 nulla poi qualche comparsa dal ’97 al 2004 e nell’inverno del 2007”.
Ma oggi possiamo stare tranquilli?
“È ancora difficile fare delle previsioni ma per questa stagione possiamo essere fiduciosi. Abbiamo effettuato controlli anche di recente con tanto di telecamere subacquee al largo delle coste italiane e croate. Dalle analisi e dalle informazioni e segnalazioni che abbiamo sotto mano non c’è alcun segnale di materiale relativo a mucillagini. Negli anni in cui si sono manifestate, in questo periodo, al largo e ad una certa profondità già si potevano notare”.
Dunque un domani non è escluso che esse possano tornare.
“Il fenomeno è ciclico nelle acque dell’Adriatico. I primi dati scientifici risalgono alla fine del Settecento, le prime pubblicazioni che rivelano il problema alla fine del 1.800. Quel che dobbiamo capire è che si tratta di un fenomeno completamente naturale originato da zuccheri complessi, amido di cellulosa, prodotti da una microalga che si gonfia a contatto con l’acqua e che dal fondo affiora in superficie e con i venti viene trascinata dal largo alla costa. Una cosa assolutamente diversa dall’eutrofizzazione che è invece strettamente legata agli apporti di sostanze antropiche (dall’attività dell’uomo) come fosfati e nitrati, per intenderci. Anche questo comporta una colorazione delle acque, sul verde-marroncino, ma è più circoscritto spazialmente e temporalmente ad un massimo di sette-dieci giorni, poi finisce anche se si ripresenta ciclicamente”.
La ferita nel turismo
Falsi miti da smentire, dunque. Anche se allora la confusione regnò sovrana. Solo alla metà di luglio le analisi dei laboratori dell’Università di Bologna scongiurarono il pericolo per la salute dei bagnanti e il tanto temuto divieto di balneazione. La “benedizione” della chimica non bastò però a frenare la maledizione mediatica. Giornali e tv italiani ed esteri (soprattutto certa stampa tedesca) continuarono a massacrare la riviera. Stabilimenti balneari, alberghi e tutta la catena dell’indotto turistico continuarono a soffrire. Ormai Rimini, l’ex meta della vacanza a base di sole, mare e buona cucina, era marchiata a fuoco. E anche negli anni successivi al primo comparire di qualche alga si iniziò a temere il peggio. Fatichiamo ancora, a vent’anni di distanza a scrollarci di dosso quella melma che, per quanto innocua, ha di certo creato una ferita nell’animo del turismo riminese.
Alessandra Leardini